La pittrice delle vette: «L’alpinismo sottovaluta le donne»
Diventata mamma, Riccarda de Eccher ha preferito le escursioni ma prosegue le sue battaglie: «Ce ne sono di bravissime, liberiamoci dalla cultura della sottomissione»

Una donna piena di passioni, prima per l’alpinismo, poi per la famiglia, quindi per la pittura e adesso per le battaglie femministe, che sono, a dire il vero, un tratto costante della sua vita. A Riccarda de Eccher, poco più di 70 anni, nata a Bolzano da una famiglia trentina profondamente irredentista, verrà consegnato il 26 luglio a Calalzo il premio speciale Dolomiti Unesco, nell’ambito del Pelmo d’oro.
Divide la sua vita tra gli Stati Uniti e il Friuli, Udine in particolare, dove la famiglia si trasferì quando lei era adolescente. Ma è dalle Dolomiti che non riesce a stare lontano, anche se ha lasciato l’arrampicata da molti anni. «Quella dell’alpinismo è stata una fase durata una decina di anni, che si è conclusa quando ho avuto i figli. Ho sempre pensato che, se ci sono dei figli, bisogna abbandonare l’arrampicata e questo vale sia per le donne che per gli uomini, beninteso».
Quando ha cominciato a scalare?
«Quando ci siamo trasferiti in pianura io mi sentivo persa senza le montagne. Ho conosciuto l’istruttore di un corso di roccia e ho pensato di provare: la prima salita, prima ancora di finire il corso, è stata una via nuova sulle cime marginali di Riobianco, nelle Alpi friulane. Avevo 18 anni. L’ambiente alpinistico di Udine era però molto conservatore, pensavano che fossi brava, ma che non avrei continuato. A Trieste, dove sono andata per frequentare l’università, c’era tutta un’altra mentalità, la presenza delle donne era assodata».
La scelta di abbandonare l’alpinismo attivo è stata legata anche ai tanti lutti vissuti da vicino?
«Penso di sì. Tiziana Weiss era una mia grande amica, una grandissima alpinista. Con lei ho scalato la via Tissi sulla Torre Trieste, nel 1977. L’atteggiamento verso le scalate era totalmente diverso da quello di oggi: eravamo amiche, andavamo ad arrampicare, e basta. Non ho neppure una foto di quella salita. Al giorno d’oggi al primo terrazzino raggiunto, scattano una foto e la mettono subito su Instagram. Tiziana morì l’anno dopo sulle Pale di San Martino: toccò a me dare la notizia a sua madre».
È stata quella la scalata più difficile?
«No, penso che sia stata la Einsenstecken alla Roda di Vael. Ci sono state anche due spedizioni extraeuropee, all’Annapurna III nel 1977 e all’Everest nel 1980. Nella spedizione dell’Everest c’erano diversi alpinisti poi premiati con il Pelmo d’oro, come Masucci e De Marchi. Avvenne prima delle spedizioni commerciali, siamo andati a piedi da Katmandu e ci abbiamo messo 21 giorni: adesso si spostano in elicottero».
Dopo oltre dieci anni, finisce per lei l’epoca dell’arrampicata, ma non l’andare in montagna.
«Non si può smettere di andare in montagna. Mi sono sposata con un americano e sono andata a vivere in America, ma venivo di frequente in Italia per il mio lavoro, anche perché non potevo stare senza le montagne. Mio marito, quando ci siamo conosciuti, mi ha detto che il posto più alto in cui era stato era la schiena di un cavallo. Ma è uno sportivo e un buon camminatore, ora viene in montagna con me. Non ho bisogno adesso di arrivare in cima, mi godo la fatica, l’atmosfera, la natura».
La giuria del Pelmo d’oro l’ha definita una “malata di Pelmite”. Come mai questo titolo?
«Me l’ha dato un mio compagno di cordata da ragazza. Io gli mandavo continuamente foto del Pelmo e lui mi ha detto: ma sei malata di Pelmite? Dipingo spesso il Pelmo, quando una montagna ha quella bellezza ti sembra di non riuscire a catturarla mai abbastanza: ogni volta che lo guardo mi dico che non riuscirò mai a dipingerlo così bello».
Come è iniziata la passione per la pittura?
«Ho cominciato a dipingere venti anni fa, senza averlo mai fatto prima. Per molti anni con la famiglia siamo stati in vacanza in un posto meraviglioso nel Tirolo, tra malghe, prati falciati, silenzio e natura, niente a che vedere con la quantità di gente che affollava anche allora le Dolomiti. Un giorno un mio nipote mi chiese i nomi di fiori, io non li sapevo, a parte quelli comuni. Così mi sono procurata un manuale pieno di fotografie. I nomi dei fiori non li ho imparati, ma ho cominciato a dipingere per riprodurli. E poi ho continuato a casa in America, con delle nature morte. Ho cominciato a fare corsi, a comprare libri: sono un po’ fanatica quando mi appassiono a qualcosa. Quando sono tornata in Europa, ho pensato di dipingere le montagne che amo tanto: è cominciata così».
Ha al suo attivo molte mostre.
«Moltissime. Quest’anno ne ho fatta una in Val Gardena e una ad Amburgo. Dieci anni fa sono stata anche a Oltre le Vette e mi avevano invitata pure l’anno scorso. Mi sono accorta allora che il titolo completo della rassegna è “Oltre le vette – metafore, uomini, luoghi della montagna”. Gli ho detto, togliete la parola uomini, mettete una parola più inclusiva, come gente».
Eccola qui, la femminista della montagna.
«Il mondo dell’alpinismo è ancora prettamente maschile. Penso a quello che succede se una donna alpinista muore in montagna, magari lasciando dei figli piccoli, come è accaduto. Su di lei si scatena il putiferio mentre per un uomo non succede. Organizzo iniziative al Trento Film Festival e in Friuli per dibattere su questi temi. Serve una prospettiva diversa e c’è ancora tanto da lavorare. Ho notato tra l’altro che nell’elenco del Pelmo d’oro, non ci sono molte donne premiate nel corso degli anni. Eppure ci siamo anche noi, ci sono alpiniste fortissime in attività. Dobbiamo liberarci, noi come donne, da quella cultura della sottomissione di cui siamo ancora intrise, senza rendercene conto».
Come è cambiato l’alpinismo negli ultimi decenni?
«È cambiato in modo inverosimile, bello da alcuni punti di vista: ci sono mille attività che prima non si facevano, ognuno può ritagliarsi il posto che vuole. Ai miei tempi non esisteva neppure l’idea della falesia, adesso c’è gente che arrampica solo lì e in montagna non va mai. È diventato uno sport di massa e spesso si va in montagna totalmente impreparati alle condizioni meteo che possono cambiare in poco tempo. E poi si lamentano tanto che costa caro salire al rifugio Auronzo, per fare il giro delle Tre Cime: ma andateci a piedi. La montagna non è per tutti e per tutte le età: si fa quello che è in armonia per la propria età».
Alle Tre Cime è legato da ricordi?
«Sono andata su con gli sci una notte di Capodanno con Tiziana Weiss e la mattina dopo abbiamo scalato la Grande di Lavaredo». —
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