Ostetriche in Africa con il Cuamm dalla parte degli ultimi
Dieci anni fa nasceva il progetto destinato a studentesse dell’Università di Padova voluto da Carolina Mega Cacciavillani in ricordo del padre. Sono partite in 18 con la Borsa di studio Michele Mega, oggi da rifinanziare

«Servono fondi, sennò il progetto muore». Lo dice con l’ottimismo che lo contraddistingue, don Dante Carraro, volto dei Medici con l’Africa Cuamm, appena rientrato dalla Sierra Leone. A dieci anni dalla prima edizione, rilancia la Borsa di studio Michele Mega, il progetto di formazione che ha coperto fin qui le spese a diciotto studentesse (due all’anno, destinatarie di 10 crediti formativi l’una) iscritte al corso di laurea in Ostetricia dell’Università di Padova. Per tre mesi hanno studiato e lavorato negli ospedali Cuamm a Matany in Uganda, a Tosamaganga in Tanzania, a Wolisso in Etiopia e a Pujehun in Sierra Leone.
Voluta da Carolina Mega Cacciavillani in ricordo del padre, docente a Padova e primo presidente del diploma universitario di Ostetricia, la borsa è stata immaginata e strutturata assieme a don Dante (Cuamm) e a Giovanni Battista Nardelli, ex direttore della Clinica ostetrico-ginecologica dell’Azienda ospedaliera, con il supporto dell’ateneo. «Di 7 mila euro necessari al mantenimento delle borsiste nel periodo di trasferta, mille li continuerà a donare la famiglia Cacciavillani, per la restante parte siamo fiduciosi nell’aiuto di tutti», incalza don Dante.
Cuamm: «Diamo continuità»
Oggi i Paesi dell’Africa pagano il peso del taglio ai fondi americani voluto dal presidente Trump. «Mancano farmaci per l’Hiv e la tubercolosi, il gasolio per le ambulanze e i frigoriferi che devono mantenere i vaccini, i salari per il personale locale. La sfida è molto grande ma torno dalla Sierra Leone per dire continuiamo ad esserci, diamo continuità alle borse di studio», sprona don Dante, arrivato all’appuntamento in bici dalla stazione di Padova, con la valigetta ancora chiusa tenuta in equilibrio sul manubrio.
Indelebili lezioni africane
Parlano da sé le testimonianze dirette delle studentesse che per l’Africa si sono messe in gioco, e a cui questa terra («che nello sguardo dei bimbi per strada sa dare la gratitudine e leggerezza che speravi di portargli tu», come ha ricordato una di loro) ha restituito tanto, che a dirlo quasi non ci si riesce.
Irene Burbello, 22 anni di Tombolo, è rimasta da aprile a luglio dello scorso anno nell’ospedale di Wolisso. «La carenza di materiali, la grandissima diversità di quanto hanno a disposizione lì rispetto ai nostri ospedali, è tra le cose che mi ha colpito di più in assoluto», confessa. «È una scarsità che si riversa negativamente in ogni situazione e, proprio per questo – aggiunge – voglio sottolineare la grandissima bravura di tutto il personale ostetrico locale in grado di gestire al meglio ogni emergenza con quello che ha».

Una delle prime a partire, nel 2017, è stata Melody Massaro, 38enne padovana. «A Tosamaganga ho imparato a non dare nulla per scontato e che, in certe parti del mondo, non si sopravvive per delle sciocchezze. Ho assistito alla morte di una donna che le tecnologie della cosiddetta parte avanzata del pianeta avrebbe benissimo potuto evitare... Da questa esperienza mi porto a casa tantissimo, personalmente e professionalmente».
L’ospedale della Tanzania è stato la meta anche per Diletta Dione, di Monselice, tutt’oggi onorata per la borsa di studio che le è stata assegnata. «Qui, in Italia, manifestiamo il nostro dolore. Lì, le donne in travaglio non urlavano. Tacevano e sopportavano la sofferenza in silenzio, perché così erano abituate a fare. Sono passati ormai otto anni ma lo ricordo come fosse ieri», dice.

E allora da questa lezione aspra, Diletta ha imparato «l’importanza, per un’ostetrica, di saper stare vicino nel dolore a tutte le persone che le vengono affidate, e che debba essere un diritto che un bambino nasca sano da mamma sana».
In Italia 21 mila ostetriche su 44 mila
La presidente della Federazione nazionale degli Ordini della professione ostetrica, Silvia Vaccari, traccia il punto, a livello italiano, sul «lavoro privilegiato per cui assistiamo tutti i giorni al miracolo della vita», premette a monte del suo intervento. «Siamo 21 mila su un fabbisogno che sarebbe di 44 mila. Spesso non riusciamo a soddisfare i bisogni di accompagnamento alla nascita delle donne. In questo scenario di generale carenza, Padova è ancora una realtà di quelle invidiabili – nota Vaccari –. Questi tre meni spesi in Africa trasmettono alle giovani un approccio laterale: non si lavora solo in ospedali efficienti ed efficaci, come vale nel nostro sistema sanitario nazionale, ma anche con poco, potendo dare tanto».
Credono profondamente nella Borsa di studio Mega anche il sindaco di Padova Sergio Giordani e la rettrice dell’università, Daniela Mapelli, che trova il bagaglio delle studentesse arricchito di spirito di lavoro di squadra e più sensibilità al contatto umano.
Un’ultima chicca, svelata nella lectio del prof Nardelli: la prima clinica ostetrica della città sorgeva nella chiesetta di San Leonino, in Prato della Valle, oggi sede del ristorante Zairo. —
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