Non è uno sport per “femmine”, la storia di Nicole Corva contro i pregiudizi: «Il rugby su neve è uno stile di vita»
La sportiva friulana, mamma di 35 anni, lavora in fabbrica come operaia. Si allena tre volte a settimana e gioca in Serie A con la Forum Iulii. Alle bambine dice: «Non arrendetevi alle prime difficoltà»

Jeans e infradito. E una certezza in tasca. Lei in quel campo non ci sarebbe entrata. Troppo diverso dalle piste di sci di fondo, troppo lontano dal giacchio dello stadio di hockey dove era cresciuta. Non era nemmeno un sogno da bambina, il rugby. Certo, poteva rappresentare una rinascita, dopo l’infortunio al ginocchio, dopo il progetto sfumato a Pontebba delle Aquile. Sì, una ripartenza. E anche una sfida per lei che lo sport lo ama da sempre. Nicole Corva segue l’istinto, come sempre. Zittisce le voci di chi lo bollavano come uno “sport pericoloso, solo da uomini” (anche il suo, di pregiudizio) e al secondo allenamento ci torna, ma in pantaloncini e con scarpe adatte. “Da allora non ho più smesso”. È una figlia delle montagne Nicole, 35 anni.
Ha occhi azzurri come l’acqua ghiacciata del lago di Fusine, dove vive con la sua famiglia. Tutti la chiamano “Lilo”, perché chi la conosce sa quanto grande sia la sua passione per il cartone Disney “Lilo e Stitch”. Anche le sue compagne di squadra, la Forum Iulii, con cui da tre anni gioca in serie A. C’è il lavoro in fabbrica come operaia, ci sono due – a volte tre – allenamenti a Bagnaria Arsa ma Nicole affronta tutto, con la determinazione di chi ama ciò che fa. Tarvisio è la sua casa, da sempre. Ed è qui che è diventata istruttrice di corsa dei cani con slitta. Ed è qui, sulla sua neve, quella di cui riconosce il profumo, ha contribuito a far conoscere lo snow rugby, la versione invernale del rugby su sabbia, anche questo inventato in Friuli.
Nicole, perché proprio il rugby?
Ho iniziato a giocare grazie al rugbista tarvisiano Alberto Stentardo proponendomi di far parte di una nuova realtà di rugby femminile.
Ti piacque subito?
No, sicuramente non al primo allenamento quando mi presentai in infradito e jeans.
E al secondo le cose cambiarono?
Decisamente. Da allora non ho mai mollato, lo trovai subito molto coinvolgente. Mi sono sentita parte di un ambiente inclusivo, dove non importavano le differenze fisiche, contava solo la squadra.
C’era il pregiudizio che fosse uno sport maschile?
Sì, certo. Anche molte mie compagne erano titubanti, pensavano che non fosse uno sport per donne. E invece non è stato così. Gli allenatori sono stati bravi a farci sentire a nostro agio.
E il timore di farsi male?
Inizialmente c’era, poi ci hanno insegnato a come tutelarsi per non farsi male e questa paura è scomparsa subito.
Che cosa la attirò del rugby?
Il fatto di non essere uno sport individualista. Nell’hockey pur essendo uno sport di squadra la persona singola spicca, qui le sensazioni che si provano sono totalmente diverse. Qui non ti senti mai escluso.
Qual è il suo ruolo?
Io sono un pilone, gioco in mischia, è un ruolo infame (sorride). Facciamo un lavoro sporco, ma questo non mi ha mai fatto desistere. È bello aver trovato un posto nella squadra.
Prima lo sci di fondo, poi l’hockey, ora il rugby. Lo sport fa parte della sua vita.
Sì, ho praticato sci di fondo per 12 anni, poi mi sono infortunata. Purtroppo l’esperienza dell’hockey è durata solo sei anni a Pontebba, perché il progetto poi è terminato. E da lì c’è stata l’occasione dei rugby con le Valchirie a Tarvisio.
E poi è iniziata l’avventura dello snow rugby, il rugby sulla neve.
Sì è nato nel 2013, all’inizio in via sperimentale come versione invernale del beach rugby. Poi è diventato un torneo che ogni anno a Tarvisio si sviluppa su tre giornate e richiama 48 squadre da tutto il mondo, è davvero spettacolare. L’appuntamento è andato in crescendo e adesso abbiamo molte più squadre femminili che maschili oltre a quelle old miste. Da un paio d’anni faccio parte dell’organizzazione.
Che cosa le ha insegnato il rugby?
È uno stile di vita, una storia a sé. Mi ha cambiato molto nel profondo, ti dà la possibilità di conoscere tante persone e realtà diverse. È rimasto uno sport pulito, il famoso terzo tempo è davvero un momento di festa e socializzazione. Le partite si vedono in mezzo agli avversari, ci si offre una birra, questo è ciò che conta.
Che esperienza è giocare con la rappresentativa friulana della Forum Iulii in serie A?
Bellissima, ci alleniamo a Bagnaria Arsa, che per me è diventata casa, e questo per me vuol dire lunghi viaggi per ogni allenamento ma ne vale la pena. Ho delle compagne che mi supportano, sono l’unica mamma del gruppo. Alcune di loro giocano in nazionale ed è bello avere l’opportunità di confrontarsi.
È stato difficile coniugare sport ed essere mamma?
Ho preso un anno di pausa, poi di mezzo c’è stato il Covid che ha fatto allungare i tempi. Ho un grande supporto della mia famiglia, del mio compagno e delle mie compagne. Sono fortunata, il mio piccolo è la mascotte della squadra e il mio primo tifoso.
Il suo bimbo ha iniziato a giocare a rugby?
No, solo con me. Per il momento solo di sci di fondo
I pregiudizi su questo sport ne sente ancora?
Sì, da parte di chi questo sport non lo conosce e non sa quali sono le sue dinamiche. Mi dicono spesso che è pericoloso, che non è adatto per le donne, ma non è così. Dati alla mano, ci sono sport molto più “pericolosi” del rugby. Ci sono delle regole ben precise e alla base di questo gioco c’è il rispetto dell’avversario. Ti insegnano a cadere, a fare i placcaggi, è uno sport di contatto ma non è violento. Certo qualche livido si rischia di averlo, ma come in tutte le altre discipline.
Come si fa abbattere questi stereotipi?
Lo fanno i numeri che dimostrano come il movimento femminile stia crescendo. Certo ha bisogno di essere supportato e incentivato, non è sempre facile trovare sponsor, ma la strada è stata tracciata.
Era il suo sogno da bambina praticare rugby?
No, non ho mai aspirato a giocare in serie A di rugby quando ero piccola. Ho sempre vissuto lo sport come una parte fondamentale della mia vita che mi faceva stare bene. Da quando ho iniziato a giocare ci sono voluti otto anni per arrivare alla serie A, direi che è stata più una aspirazione da adulta.
E da adulta ha provato orgoglio a raggiungere questo traguardo?
Sono una persona di istinto, in questo progetto ho creduto molto. Ero tentata a mollare e invece mi sono ritagliata delle belle soddisfazioni. Sarebbe stato fiero anche il mio papà Cesare che mi ha sempre sostenuto e ora continua a fare il tifo per me da lassù, la mia colonna portante che mi manca.
Che cosa direbbe alla Nicole bambina?
Che è stata brava a continuare a crederci sempre e a seguire il suo istinto.
E alle altre bambine?
Di provarci, sicuramente. Ci vuole del tempo, bisogna provare e riprovare e non arrendersi alle prime difficoltà.
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