La battaglia delle Mamme no Pfas: «In gioco il presente e il futuro dei nostri figli»
Avvocate, casalinghe, chimiche, consulenti del lavoro, imprenditrici, pensionate: ecco le donne che lottando contro uno dei più grandi disastri ambientali da inquinanti eterni. Siamo in Veneto: sotto accusa (e condannata in primo grado) è la Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza

Ti svegli un giorno e all’improvviso scopri che respiri, cammini, lavori,... insomma vivi sopra una bomba ecologica, innescata da un’azienda che fa profitto inquinando l’acqua che bevi. Ti trovi in un incubo e ciò che ieri era normale, come bere un bicchiere d’acqua dal rubinetto di casa, oggi fa scattare l’allarme rosso.
E’ andata più meno così nella cosiddetta area rossa individuata tra le province di Vicenza, Verona e Padova, servita dalla stessa falda acquifera contaminata dai Pfas scaricati dalla Miteni di Trissino.
Quella della Mamme no Pfas che raccontiamo è una storia corale con qualche assolo dovuto alla competenza specifica della solista di turno.
E’ il 2017, ma il caso, negli uffici delle amministrazioni pubbliche interessate (dalla Regione Veneto in giù) è già scoppiato dal 2013. Anzi, ancora prima, nel 2011: due ricercatori del Cnr-Irsa, i chimici ambientali Stefano Polesello e Sara Valsecchi, studiando i campioni d’acqua di scarico prelevati alla Miteni, certificano in questa zona la più alta concentrazione al mondo di Pfas. Ad accompagnarli nell’indagine è un tecnico dell’Arpav, ma le autorità si muoveranno solo nel 2013, dopo che l’Istituto Superiore di Sanità le informerà dell’emergenza.
«Troppe carte nascoste, troppi allarmi sottovalutati», dicono le Mamme no Pfas venete, forti di una prima sentenza storica che non chiude la loro battaglia. Anzi.

La sentenza
Lo scorso 26 giugno la Corte d’Assiste del tribunale di Vicenza ha dato loro ragione riconoscendo la responsabilità penale per “avvelenamento doloso delle acque destinate al consumo ambientale e disastro ambientale”, di undici manager della Miteni, nel frattempo fallita nel 2018.
Undici condanne per un totale di 141 anni, risarcimenti milionari (58 milioni di euro al Ministero per l'Ambiente, per citarne uno) e soprattutto una decisione destinata a fare giurisprudenza, non solo in Italia.
Per la prima volta viene stabilito in un tribunale il principio che chi inquina paga e la responsabilità è penale. Le Mamme no Pfas, con tutte le associazioni ambientaliste che ne hanno supportato, valorizzato e promosso la battaglia, hanno fatto la storia. Di loro parlano i media di tutto il mondo. Facile dire: Davide sconfigge Golia. L’arrivo, dopo una maratona di otto anni, non è che una nuova partenza.

Battaglia vinta ma la guerra continua
«Ci sarà l’appello», prevede Laura Facciolo, mamma di tre figli che oggi hanno 15, 14 e 12 anni, «poi la Cassazione e avanti ancora. Avremo davvero vinto quando ci sarà una legge che imponga limiti prossimi allo zero tecnico per i Pfas nelle acque potabili. E’ questa l’unica misura efficace per tutelare la salute delle persone».
E lei lo sa bene essendo una chimica farmaceutica. Originaria di Este, abita a Montagnana e dal 2017 è una delle Mamme no Pfas.
«Era la primavera del 2013 quando un mio ex preside mi disse: “Viviamo sopra una bomba ecologica”», ricorda, «Non capivo, non potevo capire cosa volesse dire. Allora non sapevamo assolutamente nulla». Lei come le altre mamme dei comuni della zona rossa, estesa su tre province venete, non poteva neppure immaginare l’incubo in cui sarebbero precipitate.
Il caso scoppiato nel 2017
Dell’emergenza si stavano occupando allora gli enti regionali, provinciali e comunali e le autorità preposte al controllo delle risorse idriche, convinte che dei filtri avrebbero risolto il problema. L’acqua contaminata dai Pfas sarebbe tornata potabile scongiurando ogni pericolo per salute e ambiente.
«Ma nel marzo 2017», continua Laura Facciolo, «nelle nostre riunioni tra rappresentanti dei genitori di asilo e scuole elementari cominciavano a insinuarsi dubbi». Qualche informazione, sfuggita all’ordine di non creare allarmismi, aveva iniziato a girare.
Inquinamento da Pfas nell’acqua dei rubinetti.
Ai bar di Montagnana, Lonigo, Cologna Veneta, Legnago, … i primi incontri , quasi clandestini, tra genitori e le prime richieste ufficiali di chiarezza ai sindaci, al presidente della Regione, a chi potesse dare parole certe, rassicurazioni definitive,...
«Ma allora», continua Laura, «ci davano delle allarmiste. Noi abbiamo lottato e continuiamo a farlo per il presente e per il futuro dei nostri figli».
«Sì», conferma Patrizia Zuccato, residente a Montagnana e mamma adottiva di una bimba, oggi quindicenne, «ci dicevano che avevamo una percezione distorta del pericolo. “Pfas nell’acqua? Alla salute dei vostri figli fanno più male le merendine”, rispondevano ai nostri dubbi. E invece...».
Negli incontri pubblici con gli esperti invitati a relazionare sull’emergenza il pericolo veniva ridimensionato, se non addirittura annullato.
Intanto il monitoraggio effettuato nel 2017 dalla Regione Veneto su tutti i residenti dell’area rossa dai 14 anni in su evidenziava nel sangue una presenza di Pfas importante. «Valori alti, fuori dalla norma anche per mia figlia che non era nata qui», continua Patrizia Zuccato, «Colpa dell’acqua inquinata che, come tutti, anche noi bevevamo».

Il monitoraggio
«Abbiamo lottato affinché anche i bambini fossero ricompresi nell’indagine» aggiunge Sara Draghi, mamma di due figli che oggi hanno 16 e 13 anni. Consulente del lavoro, abita a Montagnana e come tutte le altre mamme si è trovata improvvisamente nella necessità di diventare esperta di Pfas. «Abbiamo passato notti a discutere, studiare, individuare strategie, decidere come muoverci per salvare il presente e il futuro dei nostri figli».
Così, spontaneamente, nascevano un po’ in tutti i comuni della zona rossa gruppi di mamme, pronte a dare battaglia, a chiedere giustizia e a tentare di alzare un argine per fermare il disastro ambientale causato dalla Miteni con lo spargimento nelle acque di scarico di sostanze perfluoroalchiliche. Inquinanti eterni, li chiamano.
Si scoprivano le prime conseguenze dell’esposizione ai Pfas: bimbi nati sottopeso e già contaminati, casi di diabete della donne in gravidanza in aumento, una strana impennata della patologie cardiovascolari. E, più, tardi anche tumori.
La vita quotidiana cambia
«Basta acqua dal rubinetto», rivive quei giorni, mesi, anni Alessandra Gemmo, di Montagnana, mamma di due bimbi che oggi hanno 12 e 10 anni, «Via le padelle antiaderenti. Grande attenzione anche per frutta, verdura, uova e carne prodotti dalle nostre terre servite dalla falda contaminata».
Responsabile risorse umane in un’azienda, si è inventata, con le altre Mamme no Pfas, organizzatrice di raccolte fondi e di eventi. Perché la battaglia richiede, oltre che impegno, tempo, fatica, anche soldi. Servono per sostenere le azioni legali, per organizzare manifestazioni, per partecipare alle spese di trasferte a Venezia, a Roma, in Vaticano e persino a Bruxelles nella sede del Parlamento Europeo, per affidare studi, per chiamare esperti di fama mondiale. Bisogna sensibilizzare, formarsi, informarsi e soprattutto informare. E ancora informare.
Così si offrono fiori, torte, magliette, ... in cambio di offerte. Nasce un comitato per mettere insieme i fondi necessari a finanziare le iniziative anti Pfas.
I controlli: quelli che ci sono e quelli che si attendono
«C’è uno studio epidemiologico deliberato dalla Regione Veneto nel 2016», riferisce Patrizia Luccato, «che non parte. Speriamo che con i risarcimenti milionari sentenziati lo scorso 26 giugno dal tribunale di Vicenza possa finalmente essere avviato».
Continua intanto la campagna di monitoraggio disposta dalla Regione Veneto con l’analisi del sangue dei residenti nella zona contaminata per verificare i valori di Pfas presenti: controlli ogni due anni per un decennio effettuati in un laboratorio preposto all’ospedale di Noventa Vicentina. L’unico.
«Purtroppo è solo su chiamata», riferiscono le Mamme no Pfas, «Le analisi non possono essere prescritte e neppure fatte a pagamento. A chi ci chiede come poter effettuare questi esami pur non abitando nella zona rossa rispondiamo di andare all’estero, in Germania ad esempio».

Chi sono le Mamme no Pfas
In questi otto anni le Mamme no Pfas hanno smosso l’opinione pubblica mondiale, la stessa che ne ha riconosciuto la vittoria storica con la sentenza del 26 giugno. Sono riuscite a far allargare da ventuno a trenta comuni la zona rossa, hanno trovato la grande collaborazione dei carabinieri del Noe di Treviso «fondamentale per l’inchiesta da cui ha preso il via il processo». Hanno ottenuto la nomina di un commissario straordinario. Hanno avuto al loro fianco la Chiesa, arrivando a Papa Francesco. Hanno stretto alleanze con tantissime associazioni ambientaliste. Hanno portato a testimoniare come consulenti dell’accusa davanti ai giudici esperti internazionali tra cui il consulente Philippe Grandjean, professore di Medicina Ambientale all'Università della Danimarca Meridionale, all’Università di Boston e ad Harvard.
Sono state chiamate a raccontare la loro esperienza in giro per l’Italia e anche all’estero. Laura Facciolo, ad esempio, è stata invitata chiamata a relazionale all’Università di Boston (Usa).
Le Mamme no Pfas hanno respinto il facile salto sul loro carro dei partiti di turno. «Facciamo politica nel senso che ci occupiamo della cosa pubblica, del bene di tutti», ribadiscono decise, «Ma non abbiamo mai avuto nè vogliamo etichette o sigle di partito. Parliamo con tutti, ma ci schieriamo solo dalla parte dei nostri figli e dei nostri nipoti, perché le conseguenze di questo inquinamento ricadranno purtroppo su di loro».
Ma chi sono queste mamme determinate, coraggiose, di fatto inarrestabili?
«Tra di noi», rispondono, «ci sono avvocate, casalinghe, consulenti, medici, pensionate, imprenditrici, insegnanti, chimiche, impiegate… Tutte mamme “normali” che il destino ha reso forti alleate in questa guerra. Ognuna ha messo le proprie competenze senza risparmiarsi. Alcune si conoscevano già, con altre siamo diventate amiche grazie a quest’incubo».
La guerra ai Pfas non è finita.
«Chiediamo allo Stato una legge nazionale che imponga limiti prossimi allo zero tecnico per i Pfas nelle acque potabili», scrivono nel comunicato ufficiale stilato dopo la sentenza del 26 giugno, «È tempo di avviare un cammino concreto e coraggioso di progressiva riduzione dell’uso dei Pfas in tutti i settori produttivi dove sia possibile. L’Italia deve fare la sua parte anche a livello europeo, impegnandosi per sostenere la messa al bando totale dei Pfas in tutta l’Unione. Queste “sostanze eterne” non possono più trovare spazio nel nostro presente e nemmeno nel nostro futuro. Noi Mamme no Pfas continueremo a vigilare, a informare, a chiedere trasparenza e responsabilità».
E c’è anche da monitorare la bonifica del sito inquinato da Miteni.
Le Mamme no Pfas chiedono inoltre giustizia economica ovvero che «parte di quei fondi portati dai risarcimenti vengano impiegati dai gestori delle acque per togliere dalle bollette voci di spesa finora ricadute ingiustamente sui cittadini nonostante i danni siano stati causati da aziende private».
Il paradosso delle vittime dell’inquinamento costrette a pagare per l’emergenza causata da Miteni.
Cosa sono i Pfas e quali conseguenze hanno sulla salute
Scrive il Ministero per l’ambiente in una nota ufficiale del 2013: “I Pfas sono composti chimici altamente fluorurati caratterizzati da una struttura chimica molto stabile che li rende particolarmente resistenti ai processi naturali di degradazione, a causa della loro elevata persistenza ambientale, tanto da essere nominati “forever chemicals”. Grazie alla loro inerzia chimica sono stati utilizzati fin dagli anni 50 in molti settori industriali, come quello conciario, della produzione di carta e dei contenitori per uso alimentare, per i rivestimenti antiaderenti delle pentole e come impermeabilizzanti nella produzione di abbigliamento tecnico (goretex).
“A causa di un utilizzo massiccio, di una forte resistenza ai processi di degradazione naturale (fotolisi, idrolisi e decomposizione aerobica e anaerobica) e della tendenza ad accumularsi negli organismi viventi, si è verificata nel tempo una diffusa contaminazione ambientale. Inoltre, alcuni PFfas, tendono a biomagnificare attraverso la catena alimentare. Tale processo di biomagnificazione consiste nell’aumento della concentrazione delle sostanze tossiche, a partire dai livelli trofici più bassi fino a raggiungere quelli più alti della piramide alimentare. L’accumulo dei Pfas nell’organismo umano ha effetti tossici e può essere correlato a patologie neonatali, diabete gestazionale e, in caso di esposizione cronica, formazione di tumori. Alcuni Pfas sono stati classificati anche come potenziali interferenti endocrini”.
Riproduzione riservata © il Nord Est