Lucia Pavin, la chef veneta Ufficiale al Merito: «La cucina è cambiata»
La chef Lucia Pavin, premiata dal Presidente della Repubblica e prima cuoca veneta, racconta l’evoluzione del mestiere: dalle cucine a legna all’intelligenza artificiale. «Grande emozione per l’ottenimento del marchio Unesco»

Lucia Pavin, insignita quest’anno dell’onorificenza di Ufficiale al merito dal Presidente della Repubblica, è stata anche premiata come prima chef veneta. Quando lei ha iniziato, Masterchef non esisteva e chi gestiva la cucina si chiamava “cuoca” o “cuoco”. Oltre alla definizione, com’è cambiata la professione in questi anni?
«Ho iniziato a 16 anni, nel 1963 e se in Italia eravamo i cuochi, in Francia c’erano gli chef intesi come i capi della cucina. Da allora la professione è cambiata molto con l’arrivo di materie prime che non si conoscevano, con le nuove tecnologie e con molta più comunicazione. Io ho debuttato con una cucina economica a legna, poi si è passati al bruciatore a nafta, quindi al gasolio, e infine all’induzione a calore. Ora c’è imbarazzo della scelta, con forni che combinano l’elettronica più sofisticata con l’intelligenza artificiale: ma la testa resta quella di chi sta dietro i fornelli ed è insostituibile. Per quanto riguarda le materie prime, è cambiata per esempio la macinazione e sono diverse le farine. Quanto alla comunicazione, è stato fondamentale il ruolo della stampa per aprire la cucina, per farla conoscere, per invogliare le persone a entrarci».
Meglio oggi o ieri?
«Non esiste nulla che produca il calore della cucina a legna. Il sapore degli arrosti cotti nel forno a legna non ha paragoni. Ma sa qual è il sogno della mia vita?».
Ce lo racconti.
«Restaurare la mia cucina a legna di un tempo, metterci le vecchie pentole che ho conservato, arredarla con un solo tavolo, anch’esso dell’epoca, e accogliere gli ospiti a tavola con io che cucino davanti a loro. Sarebbe un ritorno indietro nel tempo. E a proposito di tornare indietro...».
Ricordi che riaffiorano?
«Ricordo che un giorno Luigi Veronelli, qui da me, mi disse: “sai Lucia io vorrei portarti con Ermanno Olmi a Cortina dove c’è un’anziana signora che fa la cuoca e mi piacerebbe vedervi cucinare insieme”. Non ho mai saputo chi fosse quella signora, mi piacerebbe tanto scoprirlo. Se qualcuno mi potesse aiutare...».
Ma perché in casa cucinano molto spesso le donne e poi però gli chef più importanti sono per la maggior parte uomini?
«Nella ristorazione l’impegno giornaliero non ha orari ed è difficile coniugare questo lavoro con la famiglia. Le donne con figli devono fare molti sacrifici. Io in cucina ci passo tutta la giornata, e sono fortunata che ho i miei figli, Nancy e Alessandro, sempre qui con me».
E perché i ristoranti fanno fatica a trovare giovani disposti a lavorarci?
«Noi non abbiamo problemi, abbiamo validi collaboratori. La difficoltà a trovarli è dovuta secondo me al fatto che ci sono meno giovani. E poi, in passato, chi ha lavorato male, non trattando i ragazzi per quello che meritavano, ha creato un cattivo nome alla nostra categoria».
Lei è stata allieva di Vergé, di Marchesi e di Massari: cosa le hanno insegnato i grandi maestri della cucina internazionale?
«Per prima cosa l’uso della materia prima di altissima qualità e poi la ricerca continua, la passione e la dedizione per il lavoro. Marchesi io l’ho definito il “signore dei cuochi”, aveva un’eleganza, una signorilità, una serietà professionale straordinarie. Vergé una mattina mi disse di accompagnarlo al mercato e comprò il fegato d’oca appeso sul banco: andava ad acquistare le materie prime fresche, fondamentali anche per lui».
Il migliore chef stellato di oggi secondo lei?
«Ho una grande ammirazione per gli stellati, per le loro capacità, anche perché portano notorietà al nostro Paese e trasmettono ai giovani la voglia di iniziare il nostro percorso, facendo formazione. Ciascuno di loro ha dato il meglio di se stesso per arrivare dove è arrivato. E io non posso fare dei distinguo, in ogni posto trovi dei piatti diversi, ma senti che ovunque c’è tanta ricerca e c’è tanto impegno».
Lei ha fatto svariate esperienze all’estero, in Francia e in America. E ha ricevuto la proposta di aprire un ristorante a New York, ma ha rifiutato sostenendo che “dobbiamo rimanere qui e promuovere a casa nostra le molte eccellenze che abbiamo”. Si è mai pentita?
«Ero a Boston con Zanonato, all’epoca ministro. Dopo il pranzo nella biblioteca, un facoltoso costruttore mi propose, attraverso Zanonato, di aprire un ristorante a New York. Si era innamorato della mia cucina. Dissi di no: con tutte le eccellenze che abbiamo in Italia io resto qui, semmai siano gli americani a venire a mangiare in Italia. Insisteva: tutti vorrebbero una simile opportunità. Risposi: non ci penso neppure. Io sono stata molto all’estero, ma nessun altro posto ha le materie prime che abbiamo noi, dall’olio alle verdure. Siamo la terra d’oro per le materie prime».
Qual è la regola della sua cucina?
«Le materie fresche del momento. Faccio un esempio: in Veneto ci sono 6-7 tipi di radicchio, ho appena scoperto quello di Bassano. Io trovo il prodotto e poi creo in cucina i piatti. Quand’ero giovane e avevo i bimbi piccoli, scendevo in cucina di notte e preparavo i piatti. Ora vedo il prodotto in cassetta e penso già cosa ne farò».
In Veneto ci sono oltre 400 tra piatti e prodotti Pat. Tanti, si rischia l’inflazione?
«In Veneto abbiamo tantissime specialità, una diversità unica. Ma dobbiamo fare molta attenzione a concedere i riconoscimenti, sennò si rischia davvero l’inflazione».
La cucina italiana ha appena ricevuto il marchio Unesco: ci farà bene o finiremo per crogiolarci in questo riconoscimento?
«Il marchio Unesco è un grande riconoscimento, è un incentivo per continuare a migliorarci, per dare il massimo in creatività e passione. Se ci farà bene o se finiremo per crogiolarci, quello dipenderà solo noi. È una responsabilità grande avere un marchio del genere ed è una responsabilità morale: dobbiamo fare del nostro meglio. Ai colleghi dico che bisogna essere seri, la nostra attività ha bisogno di persone che si sentano responsabili di questo grande compito. E tutto ciò anche se costa sacrificio: nulla arriva se non viene fatto con fatica. Le cose ottenute con fatica ti restano, le ritrovi poi dentro te stesso. Quando ho appreso la notizia del riconoscimento Unesco ho provato una gioia indefinibile. E ho sentito di avere avuto ragione quando, in America, pensavo che l’Italia poteva dare moltissimo».
Tempo di panettoni, lei li produce. Preferisce la ricetta tradizionale o benvenga l’attuale esplosione di creatività?
«Da sempre nella nostra cucina produciamo tutti i lievitati, io ho imparato da mia madre che faceva le focacce. Sono favorevole alla ricetta classifica, ma trovo giusta la creatività; l’importante è che ci sia sempre la qualità».
Ci sveli il segreto per orientarci nel labirinto dei panettoni e a riconoscere quello di qualità.
«Va tagliato e dentro deve essere soffice, avere le bolle, si devono vedere i canditi e l’uva passa ... e deve avere il profumo di panettone».
I must have del menu di Natale e di Capodanno 2025.
«A Natale cappone nostrano per fare il brodo e poi con la polpa i tortelloni. Per Capodanno cotechino con le lenticchie, prosciutto crudo di quelli speciali con fichi caramellati e un buon pandoro. E i vini del nostro Veneto».
Lei quando ha deciso di diventare chef?
«Mia mamma era una grande cuoca, mi è venuto naturale continuare il suo lavoro. Ora ci sono i miei figli che portano avanti la tradizione. Ho 78 anni, ma non ho alcuna intenzione di uscire dalla cucina. E sa cosa le dico? (e ride) Quando succederà mi piacerebbe morire con il mestolo in mano, magari mescolando il risotto». —
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