Il caso del gruppo Facebook Mia moglie: come (e perché) il patriarcato rivive nella violenza digitale

Dal gruppo Facebook “Mia moglie” emerge un fenomeno che colpisce migliaia di donne: foto rubate, pornografia non consensuale e un patriarcato che, sotto nuove forme, continua a esercitare violenza anche nel digitale

Fabiana Pesci
Il caso “Mia moglie” mostra come il patriarcato sopravviva nel digitale, trasformando la rete in un luogo di violenza
Il caso “Mia moglie” mostra come il patriarcato sopravviva nel digitale, trasformando la rete in un luogo di violenza

La propria casa, il proprio letto, il proprio marito. L’emblema della sicurezza, della tranquillità, distrutto da uno scatto rubato, un post su Facebook dato in pasto al branco.

Un gruppo, “Mia moglie”, seguito da 3 innocui cuoricini, dove le donne sono ancora una volta merce da esibire, da violare, da deridere.

Perché il minimo comun denominatore, il refrain, è sempre lo stesso «Lei è mia e ne faccio ciò che voglio». 

Un clic – magari fosse uno – che butta alle ortiche campagne contro la violenza sulle donne, manifestazioni, proteste. Eccolo qua. Ancora patriarcato, cambia la forma, ma non la sostanza. 

Un post su Instagram di una scrittrice e sceneggiatrice, Carolina Capria, solleva il velo su un’attività su Facebook di «stupro virtuale» che toglie il fiato.

 «Mi è stata segnalata l'esistenza di un gruppo Facebook di 32.000 persone nel quale i membri si scambiano foto intime delle proprie mogli per commentarne l'aspetto in modo esplicito e dar voce alle proprie fantasie sessuali. Donne spesso inconsapevoli di essere fotografate per diventare prede di uno stupro virtuale».

 

Scatta la denuncia, i mostri travestiti da innocui mariti e compagni sono individuati e scoperti, il gruppo viene chiuso da Meta. Fine. Macchè.

Il gruppo risorge su Telegram, sono quattro gatti, ma intanto c’è. L’impressione, svilente, è che si cerchi di svuotare il mare con il cucchiaino, purtroppo.

Un utente scrive: «Abbiamo appena creato un nuovo gruppo privato e sicuro, chiedete informazioni qui sotto, e vi mandiamo il link, solo dopo essere stati autenticizzati come coppia reale… saluti ed in c*lo a i moralisti…».

Come dire che non basta un colpo assestato per stendere il nemico.

C’è un ma. La scoperta di questo gruppo ha destato più di qualche sospetto in mogli, fidanzate e non solo. Sui social ora è caccia aperta e accade di imbattersi in post come questi: «Dopo la chiusura del gruppo "mia moglie", noi donne stiamo scoprendo tutti gli altri gruppi collegati. Tutti i nomi e cognomi degli iscritti sono ormai di pubblico dominio (siete così stupidi e arroganti da usare i vostri veri nomi), segnalati al social e vedrete segnalati anche alla Polizia Postale.

Non so se avrete conseguenze legali, ma vi auguro con tutto il cuore di essere lasciati dalle vostre mogli e compagne, mi dispiace solo per i vostri figli e, soprattutto, per le vostre figlie. Ho visto, fra di voi, medici, avvocati e molti commercianti, nonché idraulici, insomma tutte "persone" con cui potremmo avere a che fare ogni giorno.

Fate veramente ribrezzo, siete l'emblema del patriarcato più becero, quello che prima o poi sfocia in violenza perché, per voi, le donne sono solo pezzi di carne e la carne si macella. Vi auguro la solitudine che meritate»

 

L’associazione Permesso negato fotografa numeri impietosi: «La Pornografia Non Consensuale coinvolge più di due milioni di italiani vittime, mentre 14 milioni di italiani hanno guardato in rete immagini di Pornografia Non Consensuale.

Il nuovo Report inquadra oltre 230 Gruppi e Canali italiani attivi su Telegram nella condivisione, con il più numeroso che conta oltre 450.000 utenti ed un totale di utenti  non unici di oltre 13 milioni di italiani».

Con il suo team di esperti di Tecnologia, CyberSecurity, legali, criminologi e psicologi,  PermessoNegato.it è la più grande associazione europea che sviluppa e applica tecnologie, strategie e politiche per la non proliferazione della Pornografia Non Consensuale.

I numeri sono impietosi e testimoniano un fenomeno allarmante e disarmante, lo stupro virtuale.

La scrittrice Carolina Capria ha squarciato il velo sul gruppo Facebook, sono piovute migliaia di proteste, denunce. Le vittime però sono rimaste lì. Spogliate nel corpo, derubate dell’intimità, stuprate nell’anima. E non da uno sconosciuto nascosto in un angolo buio della città in piena notte, ma dal proprio marito, compagno, fidanzato.

Ancora su Facebook, qualche donna ha avuto il coraggio di dire: «Quella nella foto sono io, mi ci sono riconosciuta». Nella community social Alpha mom è apparso questo messaggio: «Oggi ho scoperto di essere nel gruppo "mia moglie". Non sapendone assolutamente nulla.

Lui si è giustificato dicendo che fosse soltanto un gioco...Abbiamo 2 figli...e 10 di matrimonio alle spalle. Foto nostre, private di momenti di vita quotidiana. Mi sento spezzata in due». 

Spezzata in due. L’associazione Permesso negato ha anche approfondito gli effetti sulle vittime della pornografia non consensuale: «Tra le conseguenze nelle vittime della condivisione non autorizzata delle immagini, effettuata da questi gruppi, vi sono isolamento sociale, stigma sociale, familiare e lavorativo, vergogna, sino ad arrivare a veri e propri danni psicologici come depressione, disturbo post traumatico, atti autolesivi, azioni suicidarie».

Permesso negato offre anche i numeri del fenomeno e sottolinea come non esistano persone immuni dal rischio di veder sbattute online proprie foto intime: «La diffusione non consensuale di immagini private a sfondo sessuale, a scopo di vendetta o meno, mostrano un rischio generalizzato: nessuna classe sociale o demografica è esclusa, dagli adolescenti fino ai rappresentanti delle Istituzioni, dalle personalità pubbliche al singolo privato, con effetti quasi sempre devastanti sulle vite dei soggetti coinvolti.

Secondo la American Psicological Association, in uno studio pubblicato nel 2019, le persone colpite sarebbero il  10% della popolazione, con una incidenza maggiore sui minori.

Se a questo dato allarmante si aggiunge che circa il 51% delle vittime contempla come soluzione al problema la possibilità del suicidio, è facile rendersi conto della immensa gravità del problema».

L’associazione chiede l’intervento delle istituzioni e della politica: «Nella speranza che la conoscenza del fenomeno, e dei suoi numeri, sollevi quella attenzione necessaria, da parte del

Legislatore e della Società Civile, per impegnarsi su un fronte così importante».

Sul caso “Mia moglie” è intervenuta Roberta Mori, portavoce nazionale della Conferenza delle Donne Democratiche.

«La vicenda del gruppo Facebook ‘Mia Moglie’, rimosso da Meta solo dopo la denuncia pubblica e le segnalazioni alle autorità, per le quali ringraziamo in particolare le parlamentari PD della Commissione femminicidio, non e’ un episodio isolato.

E’ l’ennesima prova di una violenza digitale strutturale che affonda le proprie radici nella stessa cultura patriarcale del dominio».

«Assecondare, tollerare o sottovalutare simili forme di violenza digitale significa essere complici di una cultura dello stupro che sopravvive nei secoli e che continua a colpire le donne e le ragazze.

La responsabilità è individuale, ma diventa collettiva se si condividono immagini o informazioni senza consenso e quando non si approntano misure adeguate per prevenire non solo tanto per reagire.

Le norme europee e le Linee guida del Garante della Privacy sono chiare: i contenuti illegali devono essere rimossi, e le aziende proprietarie delle piattaforme sono tenute a intervenire in maniera tempestiva a difesa della privacy delle persone coinvolte. Esporre corpi e vite private senza consenso e’ violenza. E’ abuso».

«Serve un fronte comune delle istituzioni, delle autorità di garanzia, della società civile e delle piattaforme digitali per fermare la cultura dello stupro sempre, anche quando si manifesta online».

Mori conclude: «Solo così la rete, come la società, potrà diventare uno spazio sicuro per tutte e tutti. Ma la legalità non basta: questi fenomeni vanno contrastati alla radice con l’avviamento di un processo di autocoscienza maschile che, purtroppo, tarda a manifestarsi in forma significativa e ad aggregarsi in un movimento collettivo di liberazione».

 

 

 

 

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