Annachiara Sarto: «Il mio aiuto ai bimbi. Proteggerli significa difendere l’umanità»

Ventisette anni, impegnata fin da ragazzina in una ong, è direttrice di Protection4Kids e collabora con Onu e Unicef: «Un lavoro totalizzante, a motivarmi le storie delle persone che ho incontrato». E sui femminicidi: «Dopo Giulia non è stato fatto abbastanza, la cultura dello stupro è diffusa»

Sabrina Tomè
Annachiara Sarto nel ritratto di Massimo Jatosti
Annachiara Sarto nel ritratto di Massimo Jatosti

Annachiara Sarto, direttrice di Protection4Kids, in quali progetti umanitari è ora impegnata?

«Ne stiamo portando avanti quattro: educazione digitale nelle scuole, alta formazione anti tratta in formato escape-room poi due progetti internazionali in Gambia e in Nepal, a tutela dei minori per garantirne l’accesso ai diritti primari».

Cosa l’ha spinta a scegliere un impegno così totalizzante?

«Con Protection4kids ho iniziato nel 2019, ho partecipato a 16 missioni umanitarie e a novembre parto per il Gambia. L’aggettivo “totalizzante” è corretto: il lavoro in emergenza umanitaria non ha orari, non ha ferie, non ci sono 25 o 31 dicembre che tengano se c’è un’urgenza. Comunque: più che cosa mi ha spinto a scegliere, direi che cosa mi ha spinto a continuare, a decidere di rinnovare ogni giorno questo impegno. La motivazione nasce dalle persone che ho incontrato, che mi hanno regalato la loro storia e mi hanno reso testimone».

Ce ne racconti una.

«Penso al ragazzo di 21 anni conosciuto nei campi rifugiati in Grecia, fuggito da Kabul dopo la presa dei talebani. Abbiamo cercato di aiutare lui e la sua famiglia nell’accesso ai diritti primari. Lo abbiamo incontrato per tre anni consecutivi, poi un giorno mi scrive un messaggio “mancano solo 5 giorni”. Mi ero dimenticata di avergli detto, 6-7 mesi prima, che ci saremmo recati in missione in Grecia. Lui invece faceva il conto alla rovescia. Ecco, sapere che c’è qualcuno che fa il conto alla rovescia, questa è una motivazione forte».

Adrenalina per l’azione sul campo, soddisfazione per l’aiuto a un bambino vittima di tratta, frustrazione per i fallimenti, paura per le conseguenze di interventi pericolosi. Qual è lo stato d’animo che ha provato più spesso?

«Il mio è un lavoro di contrasti. E lo stato d’animo più frequente è quello di sentirli sulla mia pelle. Un giorno sono in un contesto di emergenza e un altro in un’università a raccontare la mia esperienza; un giorno c’è la gioia per aver salvato qualcuno dallo sfruttamento e un altro gli attacchi di panico nei voli di rientro da qualche missione. Mi capita, quando sono staccata dal contesto e senza più l’adrenalina della missione, di pensare che sto andando via mentre le persone che ho aiutato restano lì. È uno dei momenti più difficili. Ma tutti questi stati d’animo alla fine sono in equilibrio. Ci sono momenti difficili, ma anche gioie estreme. E lo stato d’animo più frequente forse è proprio la consapevolezza di questi contrasti. La bellezza del mio lavoro sta inoltre nel creare stati d’animo nuovi, che non esistono: non riesco a descrivere quello che sento quando vedo gli occhi dei genitori di un bimbo che aiutiamo».

La sua famiglia ha condiviso il percorso o l’avrebbe preferita direttrice di un museo, uno dei suoi obiettivi di ragazzina?

«Mi sento molto fortunata per il sostegno continuo che ho dalla mia famiglia. I nonni erano impegnati in missioni di volontariato in Brasile, i miei genitori sono medici e spesso scelgono di accompagnarmi come volontari in missione, pagandosi ogni viaggio. E anche mio fratello, che si sta specializzando in cardiologia, è venuto in missione con me. Non c’è supporto più importante della loro presenza. Certo, c’è da parte loro preoccupazione quando sono in contesti difficili, ma si va a sciogliere sapendo che sto facendo quello che voglio fare, che mi rende felice e che mi appassiona».

Lei collabora con organismi internazionali come Onu e Unicef. Ci crede ancora dopo il fallimento, o l’impotenza, a fronte del massacro dei bimbi di Gaza?

«Troppo semplice in questi contesti parlare di fallimento. Avendo collaborato con Onu e Unicef mi rendo perfettamente conto che operano in equilibri geopolitici molto complessi e con mezzi limitati. Troppo facile dare la colpa a queste organizzazioni quando 17 mila bambini muoiono: il fallimento qui è dell’umanità intera. Non credo nell’Onu e nelle agenzie per una fede cieca, ma perché ho lavorato per loro e con loro. Ho istruito operatori delle Nazioni Unite che dovevano partire per operazioni di mantenimento della pace; ho conosciuto le persone che vanno in questi contesti, che hanno deciso di dedicare la loro vita alla protezione dei civili in guerra, alla protezione dei minori. Difendendo i bambini, difendono la nostra idea di civiltà».

La ong Protection 4Kids che lei guida ha sede a Castelfranco: si può incidere concretamente pur operando in un piccolo centro?

«Siamo a Castelfranco, nel seminterrato della nostra azienda sponsor, in attesa della ristrutturazione dei nostri uffici. Un’unica stanza con 5-6 persone dentro: c’è chi fa una call con il Gambia, chi con multinazionali che ci sostengono, chi lavora per organizzare la prossima missione dell’8 novembre. Quello che fa la differenza non è tanto il luogo, ma il team. E la nostra è una squadra accomunata da una grandissima dedizione e passione».

Se un giovane volesse intraprendere il suo percorso, da dove deve iniziare?

«È un ambiente molto difficile, le organizzazioni per le quali ho lavorato sono molte competitive. Chi vuole misurarsi con questo contesto deve essere eclettico nel senso pieno del termine: raccogliere da qualsiasi viaggio le esperienze che possono coltivare questa passione. Più che parlare tante lingue, serve coltivare sfumature di umanità».

Ci sono esperienze locali nel Veneto che ritiene particolarmente virtuose nelle questioni globali?

«Il Cuamm è un modello al quale ci ispiriamo. Se poi devo pensare al mondo dell’education, c’è H Farm, una realtà visionaria che educa i giovani come veri cittadini del mondo».

Lei è impegnata anche nella lotta contro la violenza di genere. Dopo Giulia c’è molta sensibilità sul tema, eppure il fenomeno non conosce battute d’arresto. Cosa non è stato ancora fatto?

«Dopo Giulia è stato fatto qualcosa, ma non abbastanza. La violenza di genere è la conseguenza di un clima che si respira, del fatto che viviamo in un ambiente intriso di cultura dello stupro. Ognuna di noi cresce a pane, sessismo e maschilismo, senza neppure rendersene conto. Si parte dalla nascita, con tutti gli stereotipi: alle bimbe regalano la cucinetta, ai bimbi il kit di chirurgo. E poi le pubblicità che mercificano il corpo femminile. Dobbiamo fare tutti la nostra parte, anche le donne, per non rendersi complici, evitando di partecipare a contesti in cui il corpo femminile viene oggettificato. Servono azioni collettive, serve un’assunzione di responsabilità».

Una frase che qualcuno le ha detto e porta sempre in valigia con sé.

«Faccio un po’ fatica a reperirne una fra tutte quelle di cui sono stata testimone nelle diverse missioni. Magari una parola... le parole che mi rimangono nel cuore. E sono i nomi con cui mi battezzano le persone che incontro, usando la loro lingua, la loro cultura. Me li sono tatuati sulla schiena, sono una sorta di mantra: mi ricordano di continuare ad essere la parte migliore di me, e mi trasmettono un senso di responsabilità».

Come l’hanno chiamata?

«In Gambia “birnta” che significa “mandata da Dio”. Altri bambini arrivati in Italia come minori stranieri non accompagnati e che avevano visto sui social il lavoro fatto, quando mi hanno visto mi hanno chiamato “miracle” perché è diventata realtà il desiderio di incontrarmi. Le donne curde invece “jiyan”, che significa vita». 

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Chi è

Annachiara Sarto, 27 anni di Castelfranco (Treviso), laureata in Diritto europeo e internazionale all’Università dell’Aia, specializzazione in diritti umani e diritto penale internazionale; master in Crimini e giustizia transnazionali presso l’Istituto delle Nazioni Unite per la Ricerca sulla Criminalità e la Giustizia Interregionale.

Dal 2019 è direttrice di Protection4Kids guidando 16 missioni umanitarie in zone di emergenza. Nel 2021 è consulente del Child Protection Team del dipartimento per le Operazioni di Pace dell’Onu. Nel 2024 ha ricoperto il ruolo di Child Protection Officer per Save the Children Italia.

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