Sapelli: «Quanti errori L’Italia ha sbagliato ad abbandonare l’acciaio»

Lo storico dell’economia: Trieste come Taranto e Bagnoli «Un colpo alla meccanica delle piccole e medie imprese»

Lo storico Giulio Sapelli è autore di molti saggi e di una delle più accurate ricostruzioni del sistema economico e sociale triestino («Trieste italiana. Mito e destino economico», edito da Franco Angeli, 1990). È professore ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Economia politica.

Professor Sapelli, dove è finito l’acciaio italiano?

«In Italia abbiamo abbandonato un percorso di politica industriale nella siderurgia. Dopo la fase delle privatizzazioni e delle dismissioni, nel nostro Paese si è ritenuto non ci fosse più bisogno di acciaio. Previsione errata perché in realtà l’industria ha sempre avuto bisogno di una produzione di acciai speciali che solo la siderurgia a ciclo integrale poteva assicurare. Ma questo tipo di grandi impianti siderurgici non ci sono più. Pensiamo solo all’Italsider di Bagnoli che è stato dismesso, smontato pezzo a pezzo e venduto ai cinesi. Una vicenda raccontata nel bellissimo libro di Ermanno Rea La dismissione. Il mercato della siderurgia ormai è globalizzato e internazionale. La crisi dell’Ilva è stato un colpo inferto alla meccanica italiana perché il 70-80% della produzione di acciai speciali era destinato alle nostre piccole e medie imprese».

È mancata una politica industriale per la siderurgia?

«Ci sono stati molti errori. Storicamente il capitalismo privato italiano, per mancanza di esperienza, non è stato in grado di raccogliere il testimone dall’impresa pubblica Iri o da una grande azienda come la Fiat. Il destino dell’Ilva e dell’acciaio triestino sono abbastanza simili. Arvedi, che usa una tecnologia molto avanzata sul piano ambientale, sarebbe stato l’imprenditore più adatto a rilevare l’Ilva».

Un paradigma per una città come Trieste fondata sull’impresa pubblica...

«Nel mio saggio Trieste italiana descrivevo un processo iniziato con i primi piani di privatizzazione dell’industria. Ma era un capitalismo senza capitali».

Arvedi ha detto di sentirsi abbandonato a Trieste.

«Ha ragione. Arvedi ha fatto molto per la sua Cremona e per la siderurgia italiana. È stato un innovatore del suo settore che ha cambiato la storia della siderurgia, brevettando il primo sistema a ossigeno. È uno degli ultimi grandi veri protagonisti nel mondo dell’acciaio».

L’Italia ha una tradizione di conversione di importanti aree industriali come si tenterà di fare a Trieste?

«Il processo di ristrutturazione della Falck di Sesto San Giovanni, uno dei poli pulsanti dell’industria del Centro Europa, la Baviera del Sud, è stato un esempio virtuoso».

Tornare all’impresa pubblica? Come serve al rilancio dell’industria italiana?

«In primis i capitali. E poi veri manager industriali, non gente della finanza. Anche a Trieste sarà importante la cooperazione pubblico-privato».

L’arrivo dei cinesi?

«Sono stato sempre contrario sin dall’ingresso dei cinesi nel Wto. Penso che l’espansionismo di Pechino sia aggressivo ed egemonico ed abbiamo sbagliato a firmare il Memorandum sulla Via della Seta. Il porto di Trieste deve guardare all’Europa franco-tedesca e alla Mitteleuropa». —




 

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