Giavazzi: «Nella Germania della piena occupazione il verbo è Industria 4.0. Noi nel guado, proteggiamo i tassisti»

Il titolo di un recente saggio co-firmato dal direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, si chiede “Che cosa sa fare l’Italia”. Domanda chiave perché un Paese trova la propria identità in quel che sa fare e non di meno nella sua capacità di vendere. Domanda che per Francesco Giavazzi, nella prospettiva di risalire la china di una recessione senza precedenti e di un cambio sistemico dei fattori dell’economia mondiale, pretende di essere declinata alla luce della parola innovazione. E Giavazzi, 67 anni, docente di economia alla Bocconi e al Mit di Boston, e in passato alle Università di Essex, Padova, Venezia e Bologna, aggiunge «con coraggio». Sottolinea l’attitudine del coraggio perché chiama in causa quanti temono che innovazione e nuove applicazioni tecnologiche implichino un grave impatto in termini di posti di lavoro?
«Industria 4.0 è una sorta di verbo in Germania, dove c’è piena occupazione. Ci sono aziende tedesche che vanno a reclutare lavoratori in Spagna, offrono loro weekend in Germania affinché decidano di trasferirsi. Ovviamente perderai operai generici sostituiti dai robot, ma si formeranno altre figure professionali. Il punto è che noi Italia siamo nel mezzo, perché non vogliamo Uber e proteggiamo i tassisti, e nel contempo siamo indietro su Industria 4.0 perché temiamo che l’innovazione spazzi via posti di lavoro. Con l’avvento dell’auto i carrettieri hanno perso la posizione, ma è pure accaduto qualcos’altro. Non è vero che innovazione e tecnologia creano disoccupazione, il fenomeno avviene dove non vengono applicate».
Ma noi siamo nel guado, anche per effetto della fumosità del dialogo tra imprese e sistema della formazione e della ricerca.
«Verissimo. Dobbiamo chiederci come sarà il lavoro nel mondo tra 20 anni e sapere che andiamo verso una fase in cui avremo sempre meno contratti a tempo indeterminato e sempre più un lavoratore simile a un piccolo imprenditore. Nel mondo 4.0 ci saranno grandi e crescenti disuguaglianze, in base alla formazione: da una parte l’operaio che gestisce il robot e dall’altro quello che pulisce per terra, che ha il collega del Senegal come concorrenza. Se non hai istruzione, sei schiacciato e povero. In Usa la disuguaglianza è molto aumentata, perché se hai fatto solo la scuola dell’obbligo, sei in concorrenza con l’immigrato messicano. E dunque povero. Alla Carraro di Campodarsego, la figura chiave in fabbrica sono operai in camice bianco alla guida dei robot che producono gli assali. Il mondo verso cui andiamo è quello. Sono persone che hanno puntato su formazione e competenze specifiche, senza le quali si ferma la fabbrica. Ma se parliamo di una fabbrica vecchio stile e povera di innovazione, allora il lavoratore ha poco potere contrattuale e per entrambi il futuro appare nerissimo. E tanto più se il lavoratore ha 50 anni».
Qui viene in questione l’efficacia delle riforme introdotte negli ultimi anni e la capacità di gestire il welfare nella transizione.
«Nessun dubbio sul fatto che il lavoratore vecchio, dipendente di una impresa con l’acqua alla gola va protetto. A questo proposito, vorrei osservare che prima di Jobs Act e prima di Fornero, i lavoratori esclusi dalla cassa integrazione erano il 17% e ora sono il 4% a zero tutele. Siamo diventati un paese normale e non ce ne siamo accorti. Naturalmente questa misura costerà salata alle casse pubbliche ma costerebbe assai di più fermare l’innovazione».
Dal suo punto di vista, il Jobs Act funziona? Ci sono aspetti da rivedere nell’impianto complessivo, ponendo che sia stata introdotta troppa flessibilità e legalizzato il precariato?
«Mi colpisce che se vai in giro per il mondo sono stupefatti di noi. In America o a Parigi ci chiedono come abbiamo fatto a eliminare l’articolo 18, mentre in Italia piovono solo critiche. In Francia sono ancora a discutere di 35 ore. Forse noi abbiamo caricato la riforma del lavoro di aspettative enormi. Il Jobs Act ha aiutato molto sul piano della flessibilità, ma non è che senza domanda l’occupazione aumenta per magia. E ha poco senso parlare solo di un uso distorto dei voucher come se fosse il centro della questione».
Ma è possibile cogliere una correlazione tra la riforma del lavoro e l’andamento dell’occupazione?
«Iniziano a esserci studi puntuali utili a indagare l’aumento dell’occupazione, pari a 700 mila posti, intervenuto tra giugno 2014 e dicembre 2016. Per due terzi dipendono dalla domanda estera e dalla minima ripartenza dei consumi in Italia. Una quota ulteriore deriva dalla svalutazione guidata da Mario Draghi per l’euro. E poi pesa il sussidio relativo alla de-contribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato. Arriviamo a dire che al Jobs Act possiamo riferire la decima parte dei nuovi posti di lavoro creati durante il governo Renzi. Non so se sia tanto o poco, ma le riforme sono una cosa difficile. Significa però che la riforma ha funzionato e che i cambiamenti si fanno un pezzetto alla volta».
La produttività media dell’impresa manifatturiera valeva 56mila euro per addetto nel 2008 e 58mila nel 2016. Ci legge anche un effetto delle riforme sul lavoro? E che coerenza vede tra costo del lavoro e capacità competitiva?
«Tutti sottolineano che abbiamo perso dall’inizio della crisi il 30% di produttività sulla Germania, ma omettono di osservare che si tratta della infida media tra imprese come Luxottica che battono i tedeschi e altre aziende rimaste attardate nella illusione che saremmo tornati alle svalutazioni. Purtroppo sono tante le aziende, anche nel Nordest per tanti versi somigliante alla Germania, che hanno marciato con il passo del gambero. Parlo di industrie che non hanno praticato l’innovazione e che sono in concorrenza con i cinesi, che però hanno costi di un decimo. E allora dovremmo chiederci come mai la Germania è in piena occupazione e come mai Angela Merkel accoglie lavoratori siriani. Forse perché è di buon cuore o perché ha necessità assoluta di procacciare lavoratori al suo sistema economico? Se torniamo nella fabbrica di Mario Carraro, il costo del lavoro è forse il 10% degli assali tecnologici che lo caratterizzano a livello mondiale. Magari potrebbe ribassare il peso delle paghe, ma di pochissimo e dunque non è questa la leva competitiva. Ma è l’innovazione».
Cosa andrebbe cambiato ancora nella regolamentazione dei rapporti di lavoro?
«Ci vuole la contrattazione aziendale, punto e basta. I contratti nazionali non hanno più senso, perché sono incomparabili le condizioni in Calabria e in Veneto, ma anche tra aziende dello stesso territorio la cornice può essere radicalmente differente. Il contratto unico è una camicia di forza per tutti».
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