Il caso di madre e figlia massacrate a Rosolina: 27 anni dopo c’è un sospettato

A giudizio Karel Dusek, che lavorava al chiosco di Elisea Marcon e della figlia Cristina, uccise nella notte del 29 giugno 1998 a Rosolina Mare, nel Delta del Po. Decisiva una traccia di Dna nell’auto su cui gli aggressori sono fuggiti dopo il massacro

Rossana Santolin
Le due vittime, Cristina De Carli con la madre Elisea Marcon

Individuato dal Dna rinvenuto in un sacco a pelo e coincidente con quello rilevato su un mozzicone di sigaretta lasciato nella Fiat Argenta rubata dopo il delitto.

A ventisette anni dall’omicidio di Elisea Marcon, 59 anni, e sua figlia adottiva Cristina De Carli, 23 anni, massacrate a sprangate la notte del 29 giugno 1998 nel loro chiosco sulla spiaggia di Rosolina, il caso rimasto finora irrisolto potrebbe essere ad un punto di svolta.

Dopo decenni di indagini e false piste, il presunto killer ha forse un nome e un cognome. Il 28 ottobre il giudice del tribunale di Rovigo ha disposto il rinvio a giudizio del quarantottenne ceco Karel Dusek, sospettato del duplice omicidio, che all’epoca dei fatti lavorava come lavapiatti nel bar sulla spiaggia “Ai Casoni” e gestito dalle vittime, originarie di Paese.

Il gip ha accolto le richieste del pubblico ministero alla luce di nuovi e solidi elementi di prova a carico di Dusek che quella notte, assieme a uno o più complici ancora senza un’identità, avrebbe colpito le due donne alla testa con una sbarra di ferro per poi fuggire con l’incasso giornaliero del chiosco (600 mila lire) a bordo della Fiat intestata a Cristina.

La prima pagina della Tribuna di Treviso del 30 giugno 1998
La prima pagina della Tribuna di Treviso del 30 giugno 1996

L’ex lavapiatti

Madre e figlia gestivano il piccolo locale sulla spiaggia dove trascorrevano l’intera stagione estiva. L’attività era stata avviata da Elisea assieme al marito Arnaldo, morto di cancro nel ’97. La struttura, abbattuta anni fa, ospitava anche gli alloggi dove dormivano le due vittime.

Il delitto è avvenuto fra le 4 e le 6.30 del mattino. L’autopsia ha accertato che Elisea è stata colpita nove volte alla testa con un oggetto contundente, si ipotizza con la sbarra metallica usata per piantare gli ombrelloni. La stessa arma che il killer e i suoi complici hanno usato per sua figlia, colpita tra le quattordici e le sedici volte.

A trovarle, non prima delle 10 del giorno seguente, una delle cameriere del chiosco. Le due donne erano nella stanzetta sul retro dove erano solite dormire; erano svestite, come se qualcuno le avesse sorprese nel sonno. Elisea Marcon era già morta, mentre Cristina, agonizzante, morirà nei giorni successivi all’ospedale.

Le piste si orientarono subito verso il lavapiatti originario della Repubblica Ceca che da qualche mese aveva preso servizio al chiosco, trovando alloggio in una baracca vicino al bar. Bisognerà attendere 25 anni prima che il nome di Karel Dusek, “Carlo” per gli avventori del chiosco, venisse iscritto nel registro degli indagati.

Archiviate le posizioni di Karel Reznicek e David Moucha, connazionali dell’imputato, indagati dal ’98 e prosciolti nel 2021, la procura di Rovigo si è focalizzata su Dusek alla luce di nuove evidenze. Nel 2023 il Ris di Parma ha infatti riscontrato un match positivo del profilo genetico dell’imputato con alcun campioni di Dna rilevati sulla scena del crimine all’indomani del delitto.

Il riscontro in particolare fra le tracce genetiche trovate nel sacco a pelo dell’ex lavapiatti e quelle presenti su un mozzicone di sigaretta nella Fiat rubata e trovata in un secondo momento a Mestre, ha sbloccato l’indagine culminata ieri con il rinvio a giudizio. Il processo inizierà a marzo 2026 davanti alla corte d’assise del tribunale di Rovigo.

Fino al 12 ottobre Karel Dusek era detenuto nel carcere di Plzen, in Repubblica Ceca dove ha scontato una pena per precedenti reati. Il quarantottenne, un ragazzo all’epoca dei fatti, ha collezionato negli anni una lunga lista di precedenti perlopiù per reati contro il patrimonio. Nessun precedente specifico per crimini violenti. Dusek non parla italiano e al momento si trova a piede libero: il giudice – diverso da quello che ne ha disposto il rinvio a giudizio – non ha accolto la richiesta di sottoporlo a misura cautelare avanzata dalla pubblica accusa. Nonostante la notifica degli atti da parte del tribunale polesano, l’ex lavapiatti del chiosco di Rosolina non si è presentato in tribunale e fino ad ora non ha espresso la volontà di rendere dichiarazioni attraverso il proprio legale.

Decenni di indagini. I familiari delle vittime rappresentati dall’avvocato Martino De Marchi, da ventisette anni attendono la verità. La svolta processuale di ieri apre un altro capitolo di un caso dai risvolti complessi che appare più dell’epilogo drammatico di una rapina violenta.

La ricerca dei complici con cui ha agito l’assassino apre a molteplici piste. Una traccia di Dna rinvenuta sulla scena del crimine collegherebbe, seppur indirettamente, il duplice omicidio di Rosolina alla figura di Gaetano Tripodi, morto nel 2020 in carcere a Forlì dove stava scontando l’ergastolo per aver ucciso e decapitato l’ex moglie, Patrizia Silvestri.

Un'immagine dell’epoca del luogo della tragedia a Rosolina
Un'immagine dell’epoca del luogo della tragedia a Rosolina

Nuove tecnologie e piste da rivalutare, ora si può riaprire la caccia ai complici

La ferocia con cui l’assassino si è accanito su Elisea Marcon e la figlia adottiva, Cristina De Carli, fanno pensare a una persona avvezza alla violenza, capace di agire con freddezza per perseguire il proprio scopo.

Un punto sul quale concordano gli inquirenti, allineati anche sull’ipotesi che dietro l’orrore commesso sulla spiaggia di Rosolina la notte del 29 giugno 1998, non ci sia la mano del singolo, ma di almeno due persone. Il delitto è stato commesso in concorso con uno o più soggetti tutt’ora ignoti.

A suggerirlo sono anche le evidenze emerse negli ultimi anni, frutto di nuovi impulsi d’indagine e anche della disponibilità di tecnologie più avanzate per esaminare le prove raccolte al tempo.

Il sangue negli indumenti. Nel dettaglio sotto la lente dei Ris è finita una traccia di Dna che riconduce alla figura di Gaetano Tripodi. L’uomo è morto cinque anni fa in carcere a Forlì dove stava scontando l’ergastolo.

Il camionista di origine calabrese nel 2006 uccise la moglie e ne decapitò il corpo che fu ritrovato in una stazione di servizio a Roma. Nella sua auto è stata ritrovata una maglia con macchie di sangue del Dna corrisponde a un campione di materiale genetico raccolto dagli investigatori nella scena del crimine.

Questo apre all’ipotesi che il complice del killer avesse qualche contatto con Tripodi, un personaggio dal passato violento e sinistro, già accostato ad alcune vicende legate al satanismo.

La morte dell’ergastolano aveva permesso l’inserimento del suo Dna nella banca dati della Direzione generale della polizia criminale. Da qui il nuovo risvolto del caso nel 2020 tuttavia rimasto senza seguito per il decesso dell’uomo.

Oggi eventuali legami fra Tripodi e l’imputato offrono nuovi appigli. Karel Dusek, ex lavapiatti del chiosco delle vittime, rinviato ieri a giudizio con l’accusa di duplice omicidio, si trovava a Roma prima di trasferirsi nella località balneare polesana. Solo l’imputato, ora a piede libero, potrà fornire dettagli sul suo passato in Italia prima di approdare a Rosolina.

Lo spettro della mala. Chi ha agito quella notte non era uno sprovveduto. L’ipotesi che dietro l’assassino e i suoi complici ci fosse un contesto criminale più strutturato alimenta suggestioni ma non è del tutto priva di fondamento.

Come confermato da alcuni testimoni dell’epoca, Elisea Marcon non aveva nascosto ai parenti la preoccupazione che la criminalità organizzata provasse a infiltrarsi nella loro attività.

Dopo la morte del marito Arnaldo, Elisea si era trovata di punto e in bianco da sola nella gestione del chiosco di famiglia, tanto da aver maturato l’idea di vendere. In quegli anni si assisteva a un rigurgito della mala del Brenta che aveva messo gli occhi anche sul settore turistico nelle località balneari.

Una delle tante ipotesi spuntate in decenni di indagini che finalmente sembrano approdare ad un punto di svolta. Il presunto assassino di Rosolina ha ora un volto e dovrà rispondere delle accuse davanti ad un giudice.

Una foto d'epoca che ritrae il luogo del delitto
Una foto d'epoca che ritrae il luogo del delitto

Volevano vendere quel locale dopo la scomparsa del marito

Sarebbe stata la loro ultima stagione a Rosolina: Elisea Marcon aveva già provato a vendere il chiosco. Sarebbero tornate a casa e si sarebbero dedicate ad altre attività.

Nel giardino della villetta di Paese, in via Vittorio Veneto, in quell’estate del 1998 rimase invece soltanto un cartellone sbiadito e mezzo rotto, segno della loro assenza.

Le due donne erano partite a maggio per Rosolina, dove gestivano il loro chiosco “I Casoni” sulla spiaggia di Rosapineta, oggi area di campeggi. Come ogni anno, avrebbero dovuto far ritorno nella Marca in ottobre, al termine della stagione estiva.

Elisea era una donna dal carattere deciso e volitivo, definita dai vicini talvolta difficile per i suoi modi bruschi, ma anche coraggiosa: aveva deciso di trasferirsi con la figlia in un luogo isolato, lontano dal paese, per gestire il locale.

La decisione di acquistare “I Casoni” insieme al marito Arnaldo, originario di Torre di Mosto, era stata frutto di anni di esperienza come gestori e camerieri stagionali a Sottomarina e Eraclea.

Per cinque anni la coppia aveva lavorato duramente fino a poter finalmente gestire un locale in autonomia, un sito che durante l’estate era molto frequentato di giorno ma che di notte diventava quasi terra di nessuno.

Dopo la morte del marito, un anno prima, Elisea aveva provato a vendere il locale senza successo e, nonostante la difficoltà, aveva deciso di continuare l’attività con l’aiuto della figlia.

Cristina, adottata da piccolissima, partecipava con entusiasmo alla gestione del chioschetto: aiutava la madre in cucina, in sala e dietro il bancone, dimostrando impegno e dedizione nonostante le proprie difficoltà. Anche il giorno del delitto, entrambe avevano lavorato duramente come ogni domenica, mantenendo la routine che da anni caratterizzava la loro vita al mare.

Qualcuno, nella zona, aveva segnalato un viavai di figure poco raccomandabili, nei giorni precedenti al delitto. Ma niente che lasciasse presagire una tragedia di quella portata. Un massacro che ha segnato un’epoca: «Ricordo una comunità scossa ed incredula, che vista la distanza dai luoghi del fatto faticava a trovare una verità» ricordava Vigilio Pavan, all’epoca sindaco di Paese, «il tempo, poi, portò al silenzio»

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