Partorirai con umiliazione: i numeri che definiscono la violenza ostetrica

Sutura senza anestesia, niente aiuto per l’allattamento, minacce verbali ed epidurale negata: così le mamme vengono lasciate sole e impreparate

Daniela Larocca

Non sei capace nemmeno di spingere. Che sarà mai, si partorisce da centinaia di anni. Non sei mica la sola. 

In Italia, troppe donne vivono il parto come un momento di violenza, non di accoglienza. Secondo i dati del progetto Forties dell’Università di Padova (2025), quattro donne su dieci subiscono maltrattamenti fisici o psicologici nel periodo del parto: si va dalle offese verbali a interventi medici invasivi senza consenso o anestesia.

“Partorirai con dolore”, sono le parole che Dio disse ad Eva nella Genesi. Dolore sì. Umiliazione, anche.  

I numeri in Italia

Non ci si deve stupire se oggi molte donne scelgono di non fare il secondo figlio per paura di «ripassarci». Un’esperienza che dovrebbe essere rispettosa diventa spesso fonte di dolore e umiliazione. Il 43% delle donne definisce il parto traumatico; il 33% ha subito un’episiotomia senza anestesia, il 32% manovre mediche non sempre necessarie e il 15% nessuna analgesia. Più della metà di chi partorisce con cesareo non ha una persona accanto, e quasi una su tre si è sentita giudicata per non aver iniziato subito ad allattare.

Per quanto riguarda il post partum, in particolare l’allattamento, un terzo delle donne non ha ricevuto istruzioni, mentre il 28% ha sperimentato disagio per il ritardo nell’allattamento. Addirittura un terzo delle madri non ha ricevuto spiegazione su come attaccare il bambino al seno. Un quarto delle madri ha dichiarato che il proprio dolore è stato sminuito: “Capita a tutte, non sei la prima nè l’ultima”. 

Tutto questo è violenza ostetrica e per fare un cambio di passo in questa cultura che vede il parto come un atto sanitario, da fare velocemente e senza complicazioni, senza sentimenti, bisogna prima capire come nasce il fenomeno e dove affonda le radici, con dati e testimonianze. 

Perché si chiama violenza ostetrica

La violenza ostetrica, secondo lo studio dell’Università di Udine “Obstetric violence in the European Union: Situational analysis and policy recommendations”, è una violazione dei diritti umani e una forma di violenza istituzionale di genere, derivante dalla pratica di azioni inappropriate, dolorose, o non consensuali, e di comportamenti sessisti durante l’assistenza al parto. Non è una violenza di tipo individuale, ma strutturale e di sistema.

Questo percorso che, soprattutto in Italia, viene svolto prevalentemente in un habitat sanitario, è spesso gestito secondo un approccio seriale dell’assistenza, tutto orientato a salvaguardare le procedure di sistema, anche a scapito del benessere delle persone.

In questo senso, la violenza ostetrica si potrebbe configurare come una forma specifica, particolarmente discriminante, perché aggravata da un esito sessista, del più generale deficit di umanizzazione dell’assistenza sanitaria.

La dichiarazione dell’Oms

Ne parla anche l’Oms. La letteratura internazionale, infatti, discute di disrespect and abuse in childbirth e di “assistenza materna rispettosa” come standard di diritto alla salute: la dichiarazione OMS del 2014 chiede agli Stati di prevenire ed eliminare tali pratiche e di garantire cure dignitose e informate. Organizzazione Mondiale della SanitàWHO Apps

Sul piano professionale, in Italia una parte del mondo clinico contesta il termine ritenendolo “improprio”, pur riconoscendo l’esistenza di comportamenti e organizzazioni che possono ledere diritti e benessere delle donne. La disputa semantica, però, non elimina il tema sostanziale: come rendere misurabile e responsabile la qualità relazionale e clinica dell’assistenza alla nascita.

I numeri che abbiamo: il CeDAP 2023 e la medicalizzazione dell’assistenza

Il Rapporto nazionale CeDAP (Certificato di Assistenza al Parto), pubblicato dal Ministero della Salute e sintetizzato dall’Istituto Superiore di Sanità, resta la bussola più affidabile per comprendere come si partorisce oggi in Italia. L’ultima edizione, relativa al 2023 e diffusa nel 2025, mette in luce tre aspetti critici: la percentuale ancora molto alta e disomogenea di tagli cesarei, l’eccesso di esami durante la gravidanza e una trasparenza dei dati che resta parziale.

Sul fronte dei cesarei, i numeri parlano chiaro: il 30,3% dei parti avviene con questa modalità, ma con differenze enormi tra le regioni, che oscillano dal 17% della Toscana fino al 42,7% della Campania. Ancora più marcato il divario tra strutture pubbliche e private: negli ospedali pubblici i cesarei si attestano al 28,7%, mentre nelle case di cura accreditate la percentuale balza al 45%. La classificazione di Robson, raccomandata dall’Oms, mostra come il ricorso al cesareo sia particolarmente frequente tra le primipare a termine e, soprattutto, tra le donne già sottoposte in passato a questo tipo di intervento.

Altro dato che colpisce riguarda gli esami in gravidanza. Il 76,7% delle gestazioni supera le tre ecografie, a fronte delle due indicate dalle linee guida nazionali nei casi fisiologici. Un segnale evidente di inappropriatezza prescrittiva e di una medicalizzazione che, non sempre, si traduce in un reale valore aggiunto per la madre e il nascituro.

Il quadro delineato dal CeDAP solleva quindi una domanda di fondo: come coniugare sicurezza e appropriatezza clinica con una reale umanizzazione del percorso nascita?

La ricerca 

A incidere è innanzitutto una generale carenza di attenzione alla componente “umana” del rapporto tra operatori sanitari e pazienti. Un vuoto che deriva da un modello organizzativo pensato per l’efficienza del sistema più che per la centralità della persona. Nel caso del percorso nascita, però, questo deficit si intreccia con una componente di sessismo strutturale: a essere coinvolte non sono pazienti malate, ma donne sane, spesso non disposte ad assumere un atteggiamento passivo, capaci di esprimere dolore, disagio, domande insistenti e bisogni di comprensione e di scelta rispetto al proprio corpo.

La ricerca, tuttora in corso in Italia, coordinata dalla professoressa Lucia Ponti, psicologa e psicoterapeuta dell’Università di Urbino, prova a dare una risposta a questi interrogativi. L’indagine  ha coinvolto finora un campione di oltre 1300 donne, risulta che oltre il 76% di esse è stato vittima di una qualche forma di violenza ostetrica.

Va chiarito che non si tratta della responsabilità di singoli professionisti, ma di una fenomenologia di sistema. Una dinamica che nasce dall’egemonia del paradigma bio-medico applicato al parto (che come tornerà spesso viene visto come centrato quasi esclusivamente sugli aspetti clinici) e da una cultura sanitaria ancora poco alfabetizzata a un rapporto rispettoso con il corpo delle persone, in particolare con quello femminile.

Il risultato è un modello assistenziale che tende a ridurre la relazione a un atto di “guarigione” o di “controllo”, trascurando il valore della cura, del consenso informato, della non discriminazione.

In questo senso, ripartire dal corpo delle donne e dalla loro esperienza soggettiva potrebbe essere la chiave per una riforma culturale profonda del sistema sanitario: un modo per non sacrificare la sicurezza clinica, che resta un’eccellenza italiana, ma arricchirla di umanità, ascolto e rispetto.

I risultati dello studio coordinato da Uniud

Uno dei capisaldi della ricerca è lo studio dell’Unione europea sul problema della violenza ostetrica negli Stati membri, e le possibili risposte, coordinato da Patrizia Quattrocchi dell’Università di Udine. L’indagine è frutto di una raccolta dati effettuata tra il 2022 e il 2023 nei 27 Paesi membri. Per la prima volta presenta una panoramica delle principali forme di violenza ostetrica subite dalle donne nei servizi di assistenza al parto e alla nascita in Europa. 

Non è più possibile dire che la violenza ostetrica sia un fenomeno marginale o poco documentato. 

Le percentuali parlano da sole: si va dal 21% dell’Italia – dato comunque rilevante, che indica una donna su cinque – fino all’81% della Polonia. A essere più colpite non sono solo le donne fragili o appartenenti a minoranze, ma tutte, indipendentemente da reddito, livello di istruzione o status sociale. Alcune categorie, però, risultano particolarmente vulnerabili: migranti, donne disabili, appartenenti a minoranze etniche o in condizioni di indigenza.

Le forme più comuni di violenza ostetrica registrate nei vari Paesi sono:

  • la mancanza di consenso su procedure e trattamenti;
  • gli abusi verbali, come infantilizzazioni e discriminazioni;

  • gli abusi fisici, con episiotomie e manovre non necessarie o esplorazioni vaginali eccessive e non autorizzate;

  • la mancanza di comunicazione e supporto, con informazioni insufficienti e scarsa assistenza emotiva.

A queste si aggiunge un quadro di eccessiva medicalizzazione, con pratiche non sempre fondate sulla medicina basata sull’evidenza: uso sproporzionato del taglio cesareo, induzioni non motivate, episiotomie di routine.

«Abbiamo finalmente una panoramica europea che ci dice chiaramente quali sono le mancanze», ha commentato durante la presentazione del report la professoressa Quattrocchi, tra le autrici dell’indagine. «La priorità è definire strumenti standardizzati che permettano di comparare i dati e adottare politiche mirate. Questo documento deve arrivare ai governi, alle istituzioni sanitarie e agli ordini professionali. Non si può più sostenere che la violenza ostetrica non esista in Europa: il fenomeno va riconosciuto e affrontato con dispositivi legislativi e percorsi formativi».

“Violenza ostetrica” e quadro normativo: tra proposte e prassi

Sul piano legislativo, l’Italia ha conosciuto iniziative per tutelare i diritti della partoriente e promuovere il parto fisiologico (ad es. la proposta di legge Zaccagnini). Non ha però codificato il reato o una fattispecie ad hoc di “violenza ostetrica”. Il dibattito continua sull’opportunità di tipizzare condotte lesive entro cornici già esistenti (lesioni, violenza privata, ecc.) o di introdurre nuove fattispecie.

Nel 2010 la Conferenza Stato-Regioni, con l’approvazione delle Linee guida sull’appropriatezza degli interventi assistenziali durante gravidanza e parto, aveva acceso una luce di speranza sul percorso nascita. L’obiettivo dichiarato era chiaro e condivisibile:

garantire un’assistenza che sapesse unire due dimensioni fondamentali: la sicurezza clinica e l’umanizzazione del parto.

A quattordici anni di distanza, il bilancio appare in chiaroscuro. Da un lato, l’Italia può vantare livelli di sicurezza elevatissimi: i dati sulla mortalità materna e neonatale sono tra i migliori al mondo e rappresentano un motivo di orgoglio per il nostro sistema sanitario. Dall’altro, la promessa di un approccio realmente umano, attento non solo al benessere clinico ma anche alla relazione, all’ascolto e al rispetto dei tempi e dei bisogni delle donne e delle coppie, sembra essere rimasta in gran parte disattesa.

Nelle sale parto, l’attenzione è spesso concentrata esclusivamente sull’esito immediato del processo: il bambino deve nascere vivo e la madre deve stare bene. Ma spesso, come riportano le mamme intervistate, tutto si riduce a un evento da gestire con la massima efficienza, nel minor tempo possibile e con il minor numero di complicazioni. Un approccio che garantisce risultati eccellenti sul piano della sicurezza ma che trascura la dimensione più intima e personale della nascita: il modo in cui la donna vive quell’esperienza, l’accoglienza che riceve, la possibilità di sentirsi protagonista e non mera “paziente”.

In altre parole, se la medicina italiana ha fatto enormi passi avanti nella protezione della vita, rimane ancora molto da fare per proteggere anche la qualità dell’esperienza.

Le conseguenze

Insomma, nessuno nasce mamma, per parafrasare un modo di dire: è un percorso lungo fatto di ostacoli e con un gran bel bagaglio di cose da imparare. Su questo non c’è dubbio. Ma quanto è difficile farlo in un ambiente ostile? Anche qui, gli effetti della violenza ostetrica non si limitano al momento del parto. Le conseguenze si riflettono a lungo termine sulla salute mentale delle donne, sulla qualità del legame che si crea con il neonato e persino sulla capacità di prendersene cura nei primi mesi di vita.

Le esperienze negative in sala parto o nel periodo perinatale possono alimentare un profondo senso di sfiducia verso le strutture sanitarie, ridurre la propensione delle madri a cercare cure mediche per sé e per i propri figli, fino a condizionare la scelta di intraprendere una nuova maternità.

Per questo motivo, parlare di sicurezza clinica non basta. Accanto alla garanzia di standard elevati dal punto di vista medico, è indispensabile un’integrazione con pratiche quotidiane e professionali di umanizzazione: ascolto, informazione chiara, rispetto dei tempi e del consenso, assenza di discriminazioni. Non si tratta di attenzioni accessorie, ma di elementi essenziali per un’assistenza che non si limiti a “far nascere” un bambino, ma accompagni la donna in un momento cruciale della sua vita.

Forse, ancora una volta, ripartire proprio dal corpo delle donne può diventare la chiave per un cambiamento più ampio: una riforma culturale profonda che trasformi l’assistenza sanitaria italiana in un’esperienza non solo sicura, ma anche rispettosa e realmente umana.

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