I novant’anni di Ferdinando Camon: «Vengo da molto lontano, finché i miei libri verranno letti, io sarò salvo»

Lo scrittore padovano compagno di strada di Pasolini, Calvino, Moravia, Gadda: «La civiltà contadina che ho raccontato non esiste più, è diventata una civiltà industriale delle campagne»

Nicolò Menniti Ippolito
Ferdinando Camon, scrittore padovano

Ferdinando Camon ha compiuto ieri novant’anni, quasi sessanta dei quali passati scrivendo. Il suo primo grande libro, “Il Quinto Stato”, dedicato alla profonda campagna padovana in cui è cresciuto, è del 1970.

Poi sono venuti “La Vita eterna”, “Occidente”, “Un altare per la madre” con cui vinse lo Strega, e ancora “La Malattia chiamata uomo” e tanti altri, perché ha sempre conservato quella vigile curiosità, quella voglia di capire che contraddistinguono tanto il suo essere scrittore, quanto il suo essere un “intellettuale”: parola abusata, che però in lui conserva la dignità di un tempo.

Sei nato in un tempo in cui la vita umana durava molto meno di oggi. Sei stupito dei tuoi novant’anni?

«Sono stupito non perché è tanto avanti la mia età, ma perché è tanto indietro l'età di partenza. Vengo da molto lontano: la società era molto diversa, la civiltà era diversa, l'economia era diversa, c'era molta povertà, molta miseria, specialmente da dove partivo io».

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E con che tipo di sentimento lo vivi questo tempo lungo?

«Oramai attraversiamo tante civiltà, perché le civiltà durano poco. E quindi, arrivato a questo punto della mia vita, ne ho passate tante. Sono partito dalla civiltà contadina, ho sconosciuto la civiltà della penuria, ho conosciuto la civiltà del boom, del benessere, dell'esplosione economica. Questo mi dà un senso di precarietà, di provvisorietà».

Della civiltà attuale cosa ti colpisce?

«È un mondo che nasce dal contatto con tanti altri mondi. Si fondono civiltà che prima neanche si toccavano. Veniamo a contatto con religioni, credenze, comportamenti con i quali prima non avevamo nessun contatto, nessuna relazione».

Sei stato, in molti tuoi libri, il testimone del mondo delle campagne. Oggi cosa resta?

«C'era la civiltà contadina che io ho conosciuto profondamente e intimamente, quando l'uomo lavorava toccando terra, legno, pelle, animali o strumenti. Adesso l'uomo tocca il ferro, il metallo, tocca le macchine, tocca i trattori, tocca i camion. Quindi la civiltà contadina no, non c'è più, è diventata una civiltà industriale delle campagne».

Il tuo rapporto col Veneto e con Padova dove hai vissuto gran parte della tua vita come è stato?

«Il Veneto è stato un mondo contadino, Padova invece è sempre stata diversa. L’ho sentita ostile, abitata da una borghesia che ha valori diversi dai miei, che ha relazioni sociali in cui non mi riconosco».

La letteratura ti ha accompagnato per tutta la vita. C'è qualcosa che ti ha deluso?

«Sì, mi ha deluso e mi delude ancora la sua impotenza, non ha nessun potere. Io sono essenzialmente uno scrittore, cioè uno che ha per scopo quello di parlare bene e scrivere bene, ma questa qualità estetica non ha nessun potere politico o economico, è incapace di influire sulla società, di cambiarla».

Quando hai cominciato a scrivere i tuoi colleghi erano Pasolini, Calvino, Moravia, Gadda e tanti altri di quelli che oggi consideriamo maestri.

«Appartengo a un tempo in cui c'erano dei grandi personaggi, ma non mi considero un loro figlio, perché non avevano la mia idea morale, non avevano la mia idea sociale. Erano grandi e quindi non potevo non fare i conti con loro. E però no, non sono veramente miei maestri. Non mi hanno insegnato a "salvarmi". Quella è un'operazione che ho imparato a fare da solo».

Hai sempre parlato della scrittura come un mezzo per salvarsi.

«Sarà sempre così. Essere salvo vuol dire essere letto, essere leggibile, non essere abbandonato. Se tra qualche anno o qualche quinquennio qualche studente prenderà per caso in mano un mio libro e lo leggerà fino in fondo senza mollarlo più, allora sarò salvo».

Leggere è ancora un piacere?

«Per avere una relazione con gli altri devi leggere. Se vivi, vivi la tua vita, se leggi vivi anche le vite altrui, quelle che leggi. Però siccome la tua vita la puoi capire e giudicare solo dal confronto con le altre, se non leggi non puoi fare questo confronto e quindi non vivi neanche la tua vita. Leggere è un modo per vivere».

Hai avuto riconoscimenti importanti, i tuoi libri sono stati apprezzati, ti sembra che sia mancato qualcosa?

«Noi scrittori italiani siamo stati deboli nel mondo, perché non avevamo rappresentati, andavamo allo sbaraglio e questo ci ha danneggiato e ha danneggiato la nostra cultura. Non esisteva un Ministero degli Esteri, non esisteva un Ministero della Cultura. L’Italia era un paese che non esisteva».

I tuoi libri però sono stati tradotti e hanno avuto successo in molte parti del mondo. Ti sei dato un perché?

«Ho imparato con sorpresa che i miei libri avevano successo anche in paesi lontanissimi dal mio modo di pensare, per esempio in Iran. Se quello che scrivi ha una qualità estetica alta riesce ad andare lontano. Questo infonde fiducia nell'arte».

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A novant'anni hai ancora voglia di scrivere. Lo devi al grande amore per la parola?

«No, lo devo alla mia paura di morire e alla mia voglia di non morire. Leggere e scrivere è un modo di contrastare il terrore della morte. Prima non me ne rendevo conto ma qualunque cosa faccia l'uomo la fa sempre per superare la propria morte: l’uomo parla sempre della propria morte e parla per non morire - mi riconosco in questa formula».

Quando ripensi ai tuoi oltre cinquant’anni di scrittura cosa ti viene in mente per prima cosa?

«Penso a “Un’ altare per la madre”, che infatti nel manoscritto si intitolava “Immortalità” e penso a “Una malattia chiamata uomo”. Sono i due libri ai quali è affidato il mio ricordo».

Come intellettuale sei spesso stato controcorrente.

«Essere intellettuale vuol dire pensare e pensare vuol dire distinguersi dagli altri, differenziarsi, capire i limiti tuoi e altrui e in qualche modo cercare di correggerli. Non puoi pensare se non individualmente. Questo è il fatto».

Sei sempre stato un cattolico atipico. Oggi?

«Sono nato in campagna. Ho cominciato da bambino con l'andare al catechismo e la prima questione intellettuale che mi fu posta in questi gruppetti di bambini era: chi ci ha creato? Da quel momento io sono un creazionista, cioè credo che qualcuno ci abbia creato. L 'idea che siamo nati per evoluzione della materia non entra nel mio cranio. Qualcuno ci ha fatto».

E questo significa anche credere in una vita ulteriore?

«Credo anche nella immortalità spirituale. Cioè credo che stiamo vivendo e che vivremo anche quando non ci saremo».

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