Il mistero di Fatos: storia di un delitto di campagna senza un perché
Un uomo ferito accanto al suo triciclo, nel nulla. Gli hanno sparato addosso, un solo colpo. Morirà dopo tre giorni. Gli investigatori sono alle prese con un rebus inestricabile: eccolo qui

Via Casoni Basse è una strada dimenticata dal tempo. Stretta, isolata, lambita da campi e silenzi. È il tipo di posto dove ogni ruota che passa si sente, ogni sparo rimbomba. Siamo a Fontaniva, nel cuore dell’Alta Padovana, al confine con Cittadella, un paese di 8 mila anime attraversato dal fiume Brenta.
È lì che, la mattina dell'8 giugno, qualcuno ha deciso che Fatos Cenaj doveva morire. Quando due guardapesca lo trovano riverso sull’asfalto, accanto al suo triciclo, l’ipotesi è semplice: una caduta, forse un malore. Il sangue che lo circonda viene visto come conseguenza, non come indizio. Ma quel corpo non parla. Non ancora. Lo trasportano in codice rosso al pronto soccorso di Cittadella. I medici fanno ciò che devono: salvargli la vita. Ma è la Tac a raccontare ciò che nessuno si aspettava. Un foro d’entrata sotto l’orecchio sinistro, uno di uscita sulla fronte.
Un colpo solo.
Dritto.
Preciso.
Letale.
È a quel punto che il caso cambia pelle. Non è più un incidente, non è più un uomo caduto. È un uomo giustiziato. Fatos Cenaj aveva 58 anni. Era originario dell’Albania. Ex agente della polizia penitenziaria, tre anni fa aveva lasciato la patria per raggiungere a Fontaniva la moglie Rafiza, la figlia e le due nipotine. Vivevano tranquilli, in una casa a due chilometri dal punto in cui è stato trovato agonizzante.
Fatos era un uomo abitudinario. Ogni mattina, alle 7.30, saliva sul suo triciclo e pedalava verso la “Fattoria Dindo”, un maneggio dove faceva lavoretti volontari. Quella domenica, l’8 giugno, stava andando lì. Non ci è mai arrivato. Mercoledì 11 giugno, dopo tre giorni di agonia, il cuore di Fatos ha smesso di battere. Il fascicolo della Procura è cambiato: da tentato omicidio a omicidio volontario. Ma a quel punto l’unica voce che poteva raccontare la verità era già stata zittita.
Il caso viene preso in carico dalla sostituta procuratrice Maria D’Arpa. L’incarico per l’autopsia viene affidato al medico legale Rafi El Mazloum. La priorità: stabilire con certezza distanza, calibro, traiettoria. Non per avere giustizia. Per trovare un nome. La scena del crimine è pulita. Troppo pulita. Nessun bossolo. Nessuna arma. Nessun testimone diretto. L’ipotesi dell’incidente viene scartata in fretta: la traiettoria è troppo precisa, la ferita troppo netta.
Chi ha sparato voleva uccidere
Restano due possibilità. Una revolver, che trattiene i bossoli. O una pistola semiautomatica, usata da una mano esperta che ha ripulito ogni traccia. In entrambi i casi, siamo davanti a qualcuno che sa cosa sta facendo. Forse un professionista. Forse un sicario. C'è chi ipotizza anche un colpo da lontano, sparato con un fucile a canna rigata, ma la precisione chirurgica suggerisce un’esecuzione ravvicinata. Nessuna delle armi è stata trovata. E anche la pista del tiro da poligono viene esclusa: il più vicino è a oltre otto chilometri. Troppo lontano. Troppo pulito per essere un errore. Non è stata una cartuccia da caccia. I carabinieri lo hanno detto chiaramente: nessun elemento compatibile con una rosa di pallini. Nessun colpo vagante. Nessun incidente.
Indizi dall’alto

I militari del Nucleo investigativo di Padova hanno messo in piedi un’indagine che sembra presa da un noir. Un drone ha sorvolato via Casoni Basse, cercando indizi dall’alto. Le telecamere della zona – pubbliche e private – sono state passate al setaccio. I sistemi di lettura targhe, le celle telefoniche, ogni dato che possa indicare chi è passato da quella strada e a che ora. Trenta persone sono già state ascoltate: residenti, conoscenti, colleghi, datori di lavoro. Un testimone ha riferito di aver sentito uno sparo quella mattina. Ma nient’altro. Nessun volto. Nessun movimento sospetto. Si fa strada un’ipotesi inquietante: chi ha sparato potrebbe essere arrivato in auto, forse rubata, e poi essere sparito nel nulla. In silenzio. Come se conoscesse il territorio, come se avesse studiato tutto in anticipo.
Indagine a ritroso

E poi c’è il passato. Il buio. La polvere sotto il tappeto. Fatos, in Italia, era regolare da due anni. Non risultava avere un impiego fisso, ma aiutava come manovale nel maneggio. Viveva senza clamori, dedito alla famiglia. Un uomo tranquillo, descritto da tutti come gentile, riservato, senza nemici apparenti. Ma c’è una porta che gli investigatori stanno forzando: la vita precedente, in Albania.
Là dove era stato guardia carceraria. Là dove, forse, qualcuno non ha dimenticato. Forse un debito? Un vecchio nemico? O peggio: l’ombra lunga del Kanun, il codice di vendetta che ancora oggi scorre come sangue antico in certe zone dei Balcani. Nessuna conferma. Ma nemmeno una smentita.
La Procura ha pochi elementi, ma le domande sono tante. Troppe. Chi può aver sparato con quella precisione, in una zona così isolata? Chi può aver avuto il tempo e il sangue freddo per eliminare ogni traccia? Perché Fatos? Perché proprio quel giorno, proprio lì? E soprattutto: chi sta proteggendo chi ha sparato? Nel frattempo, il paese si stringe in un silenzio teso, nervoso. Fontaniva è piccola. Tutti conoscevano Fatos, anche solo di vista. Un saluto, un gesto, una pedalata. Il tempo passa, ma chi ha sparato è ancora libero. Invisibile. Gli investigatori sanno che non sarà una confessione a risolvere questo enigma. Saranno i dettagli. Un riflesso su una telecamera. Un'auto che compare dove non dovrebbe. Un frammento. Un errore. Per ora, però, resta solo una certezza: non è stato il caso a uccidere Fatos Cenaj. È stato qualcuno. E lo ha fatto con la freddezza di chi uccide di mestiere.
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