L’orgoglio di Michel Thoulouze: «L’Orto di Venezia, il vino fatto con queste mani»
Da Canal+ alla vigna di Sant’Erasmo: «Fondai 60 tv, dopo Kelly McGillis ho sposato l’erede del Pernod. Tutto inizia con una mappa settecentesca su cui c’era scritto «Vigna del Nobil uomo»


Avrebbe potuto trovarsi casa fra la Scandinavia e il Maghreb, in una delle tante nazioni dove ha creato le sue 60 televisioni, da Canal+ a Canal Jimmy, da Ciné Cinéma a Planet. Invece ha preferito prendere la residenza in Veneto. In Italia è stato presidente e amministratore delegato di Tele+, progenitrice di Sky e di tutti i canali satellitari a pagamento. Era scritto nel destino che il francese Michel Thoulouze, 79 anni, per quasi un ventennio macchina da guerra di Canal+ nel mondo, proseguisse da pensionato la sua carriera fra i canali d’acqua dopo aver molto praticato quelli dell’etere.
Oggi Thoulouze abita nella laguna di Venezia, sull’Isola di Sant’Erasmo, 3,2 chilometri quadrati e meno di 600 abitanti, famosa da sempre come l’«orto dei dogi», perché dai tempi della Repubblica Veneta vi si coltivano le uniche verdure che il mare concede alla terra, a cominciare dal carciofo violetto di Sant’Erasmo, con quella prelibatezza per intenditori che sono le castraùre, il germoglio apicale della pianta. Fa il contadino. Ha i calli sulle dita. Gira, come tutti qui, su un’Ape scassata.
«Sono diventato uno di loro perché non ho lo yacht. Anche mia figlia Mathilde, come regalo per i suoi 14 anni, volle un’Ape». In alternativa usa la topéta, che sarebbe una piccola topa – «Honi soit qui mal y pense» – e cioè la tipica imbarcazione utilizzata dai veneziani per il trasporto delle merci.
Pensionato a chi?

Pensionato è una definizione impropria, nel caso di Thoulouze. Infatti una quindicina di anni fa gli scappò di aprire Kurd 1, l’ennesima tv, a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Ma da quasi un quarto di secolo il Berlusconi francese ha cuore, testa, occhi e mani solo per la creatura che più d’ogni altra gli ha rapito l’anima. Si chiama Orto di Venezia, è un vino bianco.
«Esce dalla prima cantina riaperta nella città della Serenissima, dove fino al 1100 c’era una vigna in piazza San Marco». Appena 15.000 bottiglie l’anno, servite fra Italia e Francia in una sessantina di ristoranti stellati Michelin. Al Mudec di Enrico Bertolini, unico tre stelle di Milano. Da Aimo e Nadia. All’Harry’s bar di Arrigo Cipriani. E sull’Orient Express. «Una sola terra può dare un solo vino». Per farlo ha liberato dai rovi 11 ettari e su 4,5 ha messo a dimora i vigneti che erano stati abbandonati dal XVI secolo. «Ho creato il mio paesaggio».

Thoulouze è partito da una mappa settecentesca su cui c’era scritto «Vigna del Nobil uomo». Ha speso un patrimonio e chiesto aiuto ai suoi amici Alain Graillot, artefice in Côtes du Rhône del superbo Crozes Hermitage («“Produrre un vino a Venezia? Ma tu sei pazzo!”, è stata la sua prima reazione quando gli ho esposto il progetto»), e Claude Bourguignon, agronomo di Romanée Conti in Borgogna, che prima di fargli piantare le vigne gli ha ordinato: «Mai l’aratro, mai fertilizzanti chimici, mai diserbanti».
A Sant’Erasmo lo conoscono tutti e tutti lo chiamano per nome. Idem a Venezia. La cantina dell’Orto, di un rosso squillante, si trova vicino all’imbarcadero dove attracca il vaporetto. Accanto sorge, un po’ malridotta, la Casa Bianca, è così che viene chiamata, e il verbo sorgere pare quello giusto, trattandosi del più alto edificio della laguna di Venezia. Alto si fa per dire: due piani oltre il pianterreno, il secondo dei quali occupato da un’immensa stanza con 14 finestre. Apri gli scuri, le imposte di legno, e lo sguardo spazia a 360 gradi su terra e mare. Da fermare il respiro. Ci arrivi salendo una scala con i gradini smussati dai piedi di intere generazioni. Sul primo pianerottolo è incorniciata una lettera autografa di Napoleone Bonaparte, giusto per ricordare dov’è nato il proprietario, che però si dice fiero di pagare le tasse in Italia dal 2000. «Sono stati i contadini a darmi l’idea: “Ma lo sai, Michel, che hai comprato la più bella terra dell’isola?”, mi lusingavano. Io manco lo sapevo. Per loro è un crimine vedere anche una sola zolla abbandonata».
L’abitazione di Thoulouze è a cinque minuti di Ape dalla cantina. L’ha ristrutturata sullo stile dei casoni in cui ai appostava Ernest Hemingway per la caccia alle anatre. Una parte del tetto è ancora in canna palustre. Il terrazzo alla veneziana, antica pavimentazione che si ottiene da un’unica gettata di graniglia e cocciopesto, è stato levigato con semi di grano anziché con lo smeriglio. «È una tecnica conosciuta solo dagli artigiani di Sant’Erasmo». Thoulouze li ha mandati a farlo uguale nelle tre case che il suo amico designer Philippe Starck ha comprato a Burano.
L’ex patron di Canal+ ha avuto una vita sentimentale movimentata. La sua prima compagna è stata Martine Laroche-Joubert, la più nota reporter di guerra di France 2, l’ultima rimasta a Baghdad durante la Guerra del Golfo. Dalla loro unione è nato Constant, ingegnere chimico. È durata sei anni. Poi è stato per altri sei con Kelly McGillis, la protagonista di Witness - Il testimone e di Top gun.

Quando si lasciarono, l’attrice andò a occuparsi di un ristorante in Florida, sull’isola di Key West, luogo di villeggiatura del presidente Harry Truman e del drammaturgo Tennessee Williams, dove Thoulouze aveva acquistato una villa di legno in stile vittoriano. Infine, a 50 anni, s’è sposato con Patricia Ricard, nipote del defunto Paul Ricard, creatore del Pastis, l’aperitivo alcolico a base d’anice divenuto uno dei simboli della Francia.

La signora ha ereditato, insieme con la figlia Mathilde avuta da Thoulouze, il gruppo Pernod Ricard, leader mondiale degli alcolici: dallo champagne Mumm al whisky Ballantine’s, fino all’amaro Ramazzotti. «Fu Mathilde, quando aveva 6 anni, a piantare il primo vitigno dell’Orto».
Mi parli delle sue origini.
«Nato a Pézenas, in Linguadoca. Mia madre Luce era casalinga; mio padre André generale dell’aeronautica, addetto diplomatico nelle ambasciate francesi di Roma e Londra. In realtà faceva la spia».
La spia?
«Esatto. Pilotava lo stesso aereo, il Morane-Saulnier, di Enrico Mattei. Ce n’erano solo dieci al mondo, di velivoli così. Il presidente dell’Eni finanziava il Fronte di liberazione algerino e mio padre difendeva gli interessi della Francia mitragliando nel Mediterraneo le barche che portavano armi ai ribelli. Di qui il sospetto che i servizi segreti parigini nel 1962 avessero organizzato l’incidente nel quale morì Mattei».
È un sospetto infondato?
«Tanti anni dopo ne parlai con mio padre, che era stato chiamato a Bascapè, nel Pavese, a esaminare i resti del Morane-Saulnier di Mattei. Mi giurò che lo schianto non fu provocato da un attentato, bensì da un azzardo. Mentre infuriava un violento temporale, il presidente dell’Eni spaventò il suo pilota, Irnerio Bertuzzi, ingiungendogli di atterrare a tutti i costi».
Com’è arrivato alla tv?
«Da giornalista, dopo la laurea in economia. Sono stato inviato speciale di France Télévisions, la Rai francese, e poi capo dei servizi giornalistici. È lì che ho conosciuto Martine Laroche-Joubert».
Lasciata per Kelly McGillis.
«Insieme a Kelly, nel 1987, ebbi uno dei miei primi incontri ravvicinati con Venezia. Eravamo alla Mostra del cinema, dov’era in concorso Accadde in paradiso, che lei interpretava con Timothy Hutton. Il regista Alan Rudolph ebbe la bella pensata di dichiarare in conferenza stampa che non amava il suo film e che avrebbe preferito partecipare con Moderns. Figurarsi Kelly, aveva un diavolo per capello. All’una di notte decise che doveva fare un bagno nuda in mare per calmarsi. Camminammo per un paio di chilometri sulla spiaggia del Lido. Non appena stava per tuffarsi in acqua, una grandinata di flash: i fotografi ci avevano seguito. Rientrammo di corsa all’hotel Excelsior, lei ancora nuda e io in mutande. Tenni le mie scarpe davanti al suo volto per impedire ai paparazzi di riprenderla».
Perché ha scelto Venezia?
«Sul finire degli anni Novanta vivevo tra Milano e Parigi. Mia moglie continuava a rimproverarmi: “Non ne posso più di stare in appartamenti enormi. Voglio una casa piccola con una vista grande”. Mentre la portavo a pranzo alla Locanda Cipriani di Torcello, siamo passati in motoscafo qui davanti. È stato un colpo di fulmine. Quattro anni di trattative. Non riuscivo a farmi fissare il prezzo della tenuta, per il semplice motivo che a Sant’Erasmo nessuno compra e nessuno vende».
Che cosa ha imparato dagli ortolani dell’isola?
«“Michel, non affidarti agli enologi”. Avevano ragione. Il vino è solo uva fermentata. L’enologo ci mette dentro tante cose per giustificare il suo compenso. L’Orto è lavoro nei campi, non rettifiche in cantina. Sono andato a prendermi alcuni antichi vitigni nel più grande vivaio del mondo. Si trova a Rauscedo, in Friuli, e nessuno lo sa. Pensi che il primo vivaio della Francia fa 5 milioni di barbatelle: a Rauscedo ne producono 50 milioni. Una cattedrale della natura. Per fare il mio vino ho scelto 60 per cento di Malvasia istriana della costa dalmata, 30 di Vermentino e 10 di Fiano d’Avellino».
Una vite «terrona» in laguna? Le bruciano la cantina.
«Il Fiano regala un vino molto stretto. Non è un vino puttana che ti dà tutti gli aromi e poi non ha niente dietro. Adesso l’Orto è conosciuto come la Malvasia del doge. Alain Ducasse l’ha voluto all’hotel Plaza Athénée di Parigi, tre stelle Michelin».
Quello dove il cenone di San Silvestro costa 1.300 euro a persona.
«Eh, lo so, in Francia il ricarico sui vini è pazzesco, cinque volte il loro prezzo alla cantina. Nei ristoranti di Venezia un bicchiere costa la metà della bottiglia, in quelli di Parigi come la bottiglia».
Perché ha lasciato la tv per il vino?
«Non mi piaceva più l’ambiente. Era un delirio collettivo: “Puntiamo su Internet, è il futuro, ci farà ricchi”. Abbiamo speso cifre folli per comprare siti. Ormai viviamo in un mondo virtuale, ma io continuo a ritenere che la qualità valga più della Borsa. Ho chiesto al cantiere Amadi di Burano una topéta unica, dipinta con i colori della Serenissima, rosso e giallo oro. Tre mesi di liti, perché sostenevano di non esser capaci di fare il rosso: “Ne serve qualcossa come campion”. Allora ho capito. Gli ho portato una cassa di vino rosso e ho avuto la mia topéta. Adesso tutti in laguna vogliono la barca con i colori di Venezia».
La sua Canal Jimmy, che si rivolgeva ai gay, fu censurata per volgarità dal Giurì della pubblicità.
«Canal Jimmy è stata la prima tv a capire che l’avvenire non era nel cinema, bensì nelle serie di qualità, da Six feet under ai Sopranos. Avevamo una libertà incredibile. Un giorno spegnemmo il canale per una settimana dicendo ai telespettatori: “Fuori c’è bel tempo, uscite di casa”».
Lei sedeva nel consiglio di Mediaset. Come conobbe Silvio Berlusconi?
«Accadde quando Canal+ nel 1997 acquistò il 90 per cento di Tele+, che era stata fondata dal Cavaliere insieme con Vittorio Cecchi Gori e Leo Kirch. Capii che la tv non si limitava a farla: la guardava. Non c’era angolo del palinsesto che gli fosse ignoto».
Che cosa pensava del Berlusconi statista?
«Un giorno l’amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, mi telefonò: “Andiamo a cena a Roma, vieni con tua moglie”. Andai. Non capivo perché usassimo un aereo del Cavaliere per volare nella capitale. Appena atterrati, Galliani mi disse: “Passiamo prima a salutare Berlusconi”. Ma è il presidente del Consiglio, obiettai io, mica possiamo capitargli in ufficio così, su due piedi. “Tranquillo, andiamo a casa sua”. Il premier ci ricevette in pullover a Palazzo Grazioli. L’indomani chiesi alla mia segretaria, che conosceva l’Italia meglio di me: perché non mi ha chiamato direttamente Berlusconi? Mi rispose: “Sarebbe stata una convocazione. Invece così lei ha fatto un’improvvisata all’amico, non al presidente del Consiglio”. Fu un gesto di sensibilità istituzionale che apprezzai molto».
E del Berlusconi privato che mi dice?
«Mi voleva bene. Allo stadio San Siro accadeva una scena straordinaria. Finiva la partita, ti mettevano su un’auto e finivi al ristorante L’Assassino, con Berlusconi capotavola. Una domenica portai a San Siro lo scrittore Sandro Veronesi. Siamo molto amici, s’è ispirato a me per la figura di Jean-Claude, il francese simpatico di Caos calmo. Gli dissi: seguimi, non fiatare. E così si ritrovò a cena – lui, di sinistra – con Berlusconi. Si divertì molto: “È stata la serata più incredibile della mia vita. Mi pareva di trovarmi in un teatro antico”».
La televisione italiana le deve qualcosa?
«Beh, prima che arrivassi io, sul piccolo schermo non avevate mai visto un calciatore in primo piano. Ho rivoluzionato il modo di riprendere le partite. Ho anche modificato il comune senso del pudore».
In che modo?
«Con il porno criptato, a pagamento, per adulti. Però non avrei potuto farlo senza il tacito consenso della Chiesa».
Ma che cosa sta dicendo?
«La verità. Informai la Conferenza episcopale italiana che Tele+ stava per avviare la programmazione hard. Trovai ad ascoltarmi un paio di vescovi comprensivi, non mi chieda i nomi perché non me li ricordo. Illustrai loro i vantaggi del male minore: meglio se la sera i mariti stavano a casa, magari a rifare con le mogli quello che vedevano in televisione, piuttosto che uscire per andare a prostitute, sfasciando le famiglie».
Non posso crederci.
«Controlli: non troverà una sola presa di posizione della Cei contro i film a luce rossa in tv. Sa chi fu l’unico che mi telefonò incazzato nero?».
No. Chi?
«Antonio Ricci. “È uno scandalo!”, urlava. Per forza, rovinavo la piazza alle veline scosciate di Striscia la notizia».
Perché Tele+ fu venduta a Rupert Murdoch, che la fuse con Stream facendo nascere Sky?
«Perché Canal+ aveva perso milioni di euro negli investimenti dissennati sul web».
Che lei detesta.
«Internet è un mondo frammentato. Non aiuta l’integrazione, né delle famiglie né delle nazioni. Sfrutta solo 5 miliardi di solitudini. Non c’è più gente che la sera guardi la stessa cosa e il giorno dopo ne discuta al bar o in ufficio. Lo stesso accade per pranzo e cena: ognuno mangia ciò che vuole all’ora che vuole, genitori e figli non stanno insieme neppure a tavola. La tv univa, il web divide».
Non ama Rupert Murdoch.
«Non mi sono mai fidato del magnate australiano. È un monopolista. Finché il responsabile internazionale di Canal+ sono stato io, Murdoch non ha mai messo piede in Europa. Un giorno m’invitò a pranzo nella sua casa di Londra. Mi chiese di aiutarlo a entrare nel mercato tedesco. Ok, risposi, a patto che tu ci lasci entrare nel mercato americano. Non arrivammo a mangiare il dessert».
Che cosa apprezza negli italiani?
«Il modo in cui difendono le loro eccellenze. Sono stupito dalla qualità delle aziende familiari. Siete molto più attrezzati della Francia per superare la crisi. In Francia lo Stato è ricco e la gente povera, in Italia la gente è ricca e lo Stato povero. A Tele+ decisi di affiggere in bacheca il cedolino del mio stipendio. I collaboratori restarono di stucco quando videro che versavo il 55 per cento di tasse al mio Paese».
E un difetto che non sopporta?
«La cultura del ricatto. “Ti do questo, ma tu devi fare quest’altro”. Forse viene dai Romani. Do ut des».
Come vede l’economia?
« Che mi frega se la Borsa crolla? Oggi ho prodotto qualcosa, ho pagato i dipendenti, ho creato reddito. Qui il problema è il lavoro che tuo figlio e mio figlio non riescono a trovare, altro che i mercati! Siamo governati dai capi della Bce, della Federal Reserve, del Fondo monetario, tutta gente che non abbiamo mai eletto. Le pare normale?».
Qual è il suo ruolo nell’azienda vinicola?
«Lavoro nella vigna. A primavera tolgo i rami di troppo. Tocchi qua». (Mi porge l’indice della mano destra, deformato da una callosità vistosa). «Lo faccio solo la sera, quando tutti se ne sono andati, perché non voglio che mi vedano inginocchiato per terra. A volte sono così stanco che finisco per addormentarmi appoggiato ai filari».
Che cos’ha il vino che la tv non ha?
«Ma sono identici! L’Orto di Venezia non esisteva, l’ho dovuto trarre dall’acqua. Lo stesso le reti e i programmi televisivi. L’unica differenza è nei tempi. Un canale satellitare si mette in piedi in sei mesi. Per vedere la mia prima bottiglia ho dovuto aspettare sei anni. Io pensavo a un vino da consumare nell’arco di 12 mesi. Invece è venuto così ricco di struttura e di mineralità che migliora se lo stappi dopo due anni. Segno che ha trovato il suo terroir. Un po’ mi sono depresso: vuol dire che la terra è più importante dell’uomo. La vogliamo bere un’ombra, adesso?».
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