Lo Spirito di Stella c’è: circumnaviga il globo con la Amerigo Vespucci
Andrea ha attraversato a vela l’Atlantico per tornare dove un bandito lo inchiodò alla carrozzella: «Ora faccio il giro del mondo con quelli come me, ne ho portati in mare già 10 mila»


Lo Spirito di Stella è quello che fa dire al vicentino Andrea Stella, dopo aver già trascorso metà della sua esistenza in sedia a rotelle: «Non rinuncerei a ciò che sto facendo neppure in cambio della promessa di poter camminare di nuovo».
Lo Spirito di Stella – il nome di una barca, di un’associazione onlus, di una filosofia di vita – è quello di un naufrago che si è scoperto eroe: «Ero concentrato soltanto sul mio suicidio. Avevo vissuto bene, in piedi, fino a 24 anni. Perché mai dovevo accettare un’esistenza dimezzata? Solo che non sapevo come fare. Buttarsi dalla finestra non è così semplice, per un paraplegico. Il cocktail letale richiede che qualcuno ti procuri i farmaci giusti. Portatemi una pistola, mi veniva da urlare, siate buoni».
Eppure le sue tre revolverate le aveva già avute. Era il 29 agosto 2000. Stella, quarantanove anni il prossimo 21 gennaio, si trovava in vacanza in Florida: un premio per la laurea in giurisprudenza conseguita il mese prima all’Università di Trento. Frequentava una scuola di lingue a Fort Lauderdale, 50 chilometri da Miami. Appena assunto gli era stata consigliata dallo studio di diritto internazionale Pavia e Ansaldo, sedi a Milano, Roma, Torino, Mosca, Barcellona, Madrid e Tokyo: «Perfezioni l’inglese e lo spagnolo». Al ritorno in Italia avrebbe cominciato a fare pratica legale.
«S’è trovato nel posto sbagliato all’ora sbagliata», dichiararono gli investigatori. Ma lui che poteva saperne? I cartelli all’ingresso dell’Isola di Venezia – crudele destino per un veneto – avvertono che «Isle of Venice is protected by security patrol and constant video surveillance», è protetta da pattuglie di sicurezza e videosorveglianza costante. C’era persino un’auto della polizia privata con il lampeggiante acceso, quella sera, anche se Andrea non ricorda d’aver visto l’agente al posto di guida.
Il giovane di Thiene parcheggiò la Ford Mustang decappottabile noleggiata per 50 dollari al giorno, «per 40 mi offrivano una Fiat Palio, lei che cosa avrebbe preso al mio posto?». Suonò il campanello d’un coetaneo di Napoli conosciuto alle lezioni del mattino, «ma non aprì nessuno, perché ero giunto in ritardo all’appuntamento». Tornò sui propri passi. Vide quattro giovani incappucciati che armeggiavano intorno alla sua cabrio. «Uno di loro mi urlò qualcosa e mi sparò». Più che ladri, dementi imbottiti di crack: non si rischia la sedia elettrica per rubare un’auto. Un proiettile gli spappolò il fegato, un altro gli bucò un polmone e si fermò nella colonna vertebrale. «Dov’erano finite le gambe? Non le sentivo più. Raggiunsi la Mustang a carponi, strisciando nel mio sangue. Mi attaccai al clacson». Alla donna che sopraggiunse disse solo: «I’m dying», sto morendo.
I tanti amici e sostenitori



Non è morto. Non s’è suicidato. La paralisi del corpo non è riuscita a piegare lo spirito di Stella, divenuto il nome di un’associazione che ha avuto tra i primi sostenitori re Juan Carlos di Spagna, gli skipper Giovanni Soldini e Mauro Pelaschier, i calciatori Clarence Seedorf e Rino Gattuso. S’è fatto costruire un catamarano per disabili lungo 17,5 metri, battezzato con lo stesso nome. Dai cantieri Mattia e Cecco di Dervio l’ha fatto scendere lungo il Po fino all’Arsenale di Venezia e lì lo ha varato. Con Lo Spirito di Stella è salpato da Genova e ha attraversato l’Atlantico per tornare a Miami, la città dove tutto doveva finire e dove invece tutto è cominciato. Con lui, Carlo Ancelotti, padrino della barca, e il suo grande amico Pelaschier, che il 14 luglio 2003 erano presenti al varo.
Wheels On Wawes
Adesso l’intrepido vicentino, vincitore del premio Bancarella con Due ruote sull’oceano (Longanesi), è impegnato nella più ardimentosa delle imprese, che ha entusiasmato Guido Crosetto, ministro della Difesa, tanto da diventarne il partner ufficiale. L’ha ribattezzata Wow, acronimo di Wheels on waves, ruote sulle onde. È un giro del mondo sugli oceani cominciato il 1° luglio 2023 a Genova e che si concluderà il 10 giugno 2025 nella stessa città, dopo aver navigato per 28.000 miglia, 45.000 chilometri.
L’associazione Lo Spirito di Stella onlus, attiva dal 2003, ha deciso di promuovere in questo modo i diritti delle persone con disabilità. Le ha coinvolte in un’esperienza unica e indimenticabile lungo la linea dell’Equatore, a bordo del catamarano di Andrea Stella, che naviga fianco a fianco dell’Amerigo Vespucci, lo storico veliero tre alberi della Marina militare, varato nel 1931.
Chi partecipa?
«Possono presentare domanda tutte le persone con disabilità. Vogliamo dimostrare loro come la disabilità non debba essere correlata all’idea di reclusione, ma trasformarsi in un’opportunità di vita, com’è stato per me. Si uniscono per brevi tratti di mare, da un giorno e una notte a 15 giorni, fino a traversate più lunghe da 20 a 35 giorni. Fra i nostri compagni di viaggio ci sono militari italiani rimasti invalidi dopo essere stati feriti in missioni di pace. Fra loro, Gianfranco Paglia, il sottotenente paracadutista che nel luglio 1993 in Somalia fu colpito da tre proiettili e perse l’uso delle gambe, medaglia d’oro al valor militare. E Manuel Bortuzzo, il nuotatore che, per uno scambio di persona, è rimasto paralizzato dopo una rapina.
Non è la prima iniziativa che s’inventa.
«In questi anni Lo Spirito di Stella ha portato per mare 10.000 persone, fra disabili e accompagnatori. Ho bandito con Autogrill un concorso internazionale di idee per aree di servizio con bancone bar accessibile ai paraplegici. Avevo progettato di costruire a Bassano del Grappa la Casa per tutti, tre unità abitative indipendenti vicino all’ospedale San Bassiano, da mettere a disposizione dei pazienti con danni spinali, ma sono incappato nella burocrazia italica e nella miopia del sistema sanitario, una triste esperienza che richiederebbe un’intervista a parte».
«Che concreto che sei!», esclamò il presidente Giorgio Napolitano, appuntandole sul petto le insegne di cavaliere della Repubblica.
«Avevamo appena lanciato Spirito libero, una scuola di vita più che di vela, in cinque tappe: Siracusa, Taranto, Rimini, Jesolo, Trieste. Una sessantina di giornate, da ripetersi ogni anno, durante le quali quattro disabili che non si sono mai mossi da casa, quattro accompagnatori, un medico, un fisioterapista e un ospite illustre vanno insieme per mare, come vecchi amici. Lo Spirito di Stella li accompagna. Aveva ragione Pitigrilli: la sola autentica sclerosi è quella dello spirito».
Dopo il suo ferimento che accadde?
«Fui trasportato, sempre cosciente, al Broward general medical center. Lì ebbi la prima fortuna: quella sera era di turno il dottor Ralph Guarneri. Avendo lavorato negli ospedali di New York, metropoli ad alto tasso di criminalità, era il chirurgo più specializzato nelle ferite d’arma da fuoco. Mi operò quattro volte in 24 ore, poi mi tenne in coma farmacologico per 35 giorni. Ero più morto che vivo. Mi somministravano un antibiotico fuori commercio chiamato dagli infermieri top gun: l’avevano usato solo 12 volte in 30 anni. La flebo della morfina sempre attaccata. Nel sonno avevo allucinazioni orribili. Vedevo Lara, nuda, raggomitolata come un pollo dentro un sacchetto di plastica. Lo psicologo mi ha spiegato che in questi casi la mente cerca di mitigare il dolore attraverso i sogni».
Chi è Lara?
«Il mio primo amore, incontrato sui banchi del liceo scientifico. L’ultimo giorno di scuola la baciai. Qualche compagno di classe invidioso le disse che lo avevo fatto per scommessa. Non era vero. Ci ritrovammo a 22 anni. Dopo l’incidente è stata importantissima per me. Nel 2004 mi ha sposato. Nel 2007 ci siamo separati»
Che cosa non ha funzionato fra voi?
«La mia testa».
I suoi genitori come reagirono?
«Si precipitarono a Fort Lauderdale per starmi vicino in ospedale. Mia madre Francesca, ex insegnante di lettere alle scuole medie, era paralizzata forse più di me. Mio padre Pierluigi no, lui è diverso, vive il presente, è un ottimista, un ingegnere, un designer, manda avanti un’azienda di mobili per ufficio, la Estel, quattro stabilimenti e 350 dipendenti. Mi hanno raccontato che al mio capezzale si colpevolizzava: “Quante cose non gli ho mai detto!”. Appena sono uscito dal coma, ha cominciato a spronarmi: “Puoi fare questo, e questo, e questo...”. Dal prodotto “scrivania” si era spostato sul prodotto “figlio”. Doveva occuparsene da imprenditore, risolvere».
Un industriale organizza.
«Ero ancora mezzo morto e lui, con cinque sfrisi di matita, già mi aveva progettato gli ausili per camminare. Mi presentò un disegno davvero particolari: raffigurava me, in piedi con i tutori, mentre facevo l’amore in cucina. Riuscii solo a dirgli: “Papà, ma che ci fai qua, invece di essere al lavoro?”. Al ritorno a casa trovai già installato un ascensore accessibile. Mi portò a Fano per comprarmi una barca, un 12 metri. Rifiutai. Avrebbe potuto propormi anche la luna: io volevo solo morire».
Adesso vive da solo?
«No, con Maria. Stiamo insieme da 18 anni. Nel 2017 ci siamo sposati in pieno Oceano Atlantico, dopo essere stati al Palazzo di Vetro delle Nazioni unite a New York, dove abbiamo ritirato dalle mani del segretario generale António Guterres la Convenzione dell’Onu per i diritti delle persone con disabilità. L’abbiamo consegnata a papa Francesco in Vaticano».
Chi le disse che sarebbe rimasto per sempre in carrozzella?
«Lo capii per conto mio. Erano tutti evasivi. Chiedevo: ma le gambe? Le sentivo così strane... Al risveglio nessuno mi dava da bere. Io pensavo che fosse un problema di soldi, che servisse un dollaro per la macchinetta della Coca-Cola. Parlavo con l’orologio. Non ero più capace di scrivere: tracciavo le aste, anziché le lettere, come alle elementari».
La svolta quando avvenne?
«Durante la riabilitazione all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Su 35 lesionati midollari ricoverati con me, ero l’unico a non avere il problema dell’ascensore in casa. E osavo lamentarmi? Se stai lì a chiederti qual è il senso della vita, non ne esci più. Due sere la settimana i medici mi lasciavano ordinare la pizza fuori. La scelta, per me e i miei compagni di sventura, era diventata: margherita oppure prosciutto e funghi? In quel momento era importante, per noi. Ho capito che gli uomini hanno dentro di loro le risorse per dare risposte a problematiche nuove».
Ma non tutti possono costruirsi un catamarano.
«M’interessava dimostrare che, se una persona riesce ad affrontare le cose più complicate, a maggior ragione ce la farà in quelle semplici. Omar Papait è uno chef che aveva lavorato nell’Enoteca Pinchiorri, tre stelle Michelin, a Firenze. Ha avuto un incidente in auto, un colpo di sonno. È il primo paraplegico che ho conosciuto in ospedale a Vicenza. Non aveva mai affrontato il mare. Dopo essere stato sullo Spirito di Stella, ha aperto con i genitori un ristorante a Mirano, lo Shake a Leg, che vuol dire agita una gamba. Oltre a quattro cabine doppie, quattro bagni e due posti per l’equipaggio, tutti accessibili anche con la carrozzella, ci siamo accorti che sul catamarano si poteva ricavare un quinto bagno di servizio. Da una difficoltà è nata un’opportunità per tutti. I sani lo ignorano, ma molti oggetti di uso comune sono stati inventati per i portatori di handicap, mica per loro».
Per esempio?
«Il Pos in origine doveva servire come forma di pagamento per i non vedenti. Il telecomando del televisore era destinato a un paraplegico. L’idromassaggio è nato da un’intuizione di Candido Jacuzzi per alleviare i dolori che l’artrite idiopatica procurava al figlio Ken».
Stavo per dirlo. L’odissea di Kenneth Anthony Jacuzzi mi fu raccontata da Daniela Manzini, originaria di Eraclea ma cresciuta a Udine, che incontrai a Grado, dove dall’America veniva in vacanza. Lei lo volle sposare a tutti i costi, contro il parere dei genitori, nonostante la menomazione.
«Quanti ostacoli non vengono rimossi per pigrizia? Com’è che io riesco ad attraversare l’Atlantico in barca ma non Milano con l’autobus?».
Ci ha provato?
«Certo. Tre ore e mezzo da San Siro a piazza Duomo, alla velocità media di 1,71 chilometri orari. Nessuno ti sa dire quando passano i mezzi speciali o dove comprare il biglietto. Tra l’isola di attesa e il bus c’è un gradino: ti serve qualcuno che t’aiuti. La mia carrozzina pesa appena 8 chili, ma se fosse elettrica ne peserebbe, con me sopra, dai 150 ai 200: chi ce la fa a sollevarti? Il bus è dotato di pedana elettroidraulica con fotocellule. La pedana esce e rientra, esce e rientra: troppi automatismi, non funziona».
Desolante.
«Gli altri passeggeri all’inizio ti compatiscono. Passato un minuto di tentativi gli stai sulle scatole. Dopo due minuti vorrebbero ammazzarti. Una signora doveva andare in ospedale dal marito e ha minacciato di chiamare i vigili urbani. Percorsi 500 metri, la pedana è uscita da sola e ha urtato un Suv. Tutti giù. È questa la vita quotidiana di 3 milioni di persone disabili».
Come si può rimediare?
«Copiare dagli americani è così difficile? Negli Stati Uniti i bus hanno un’unica pedana meccanica-idraulica, munita di una semplice cerniera: si apre come un libro. Costa meno di 100 dollari. La nostra sofisticatissima pedana con fotocellule costa 25.000 euro e non funziona».
Che cosa riesce a fare un paraplegico sullo Spirito di Stella?
«Tutto. Salire, scendere, governarlo con la timoneria tradizionale o telecomandata, andare in bagno. Se sto in un ufficio, il mio problema è fare pipì. In Italia devo scegliere i ristoranti in base alla misura delle porte della toilette, almeno 59 centimetri; in America in base al menu e al prezzo. Juan Carlos di Spagna, che fu ospite sul mio catamarano a Valencia, era sbalordito: “Se si può fare su una barca, perché non si fa nelle città?”. Gli risposi: re, lei è un grande! Quelli del cerimoniale mi guardarono storto, avrei dovuto chiamarlo maestà. Il sovrano mi confidò che s’interessava a queste tematiche perché aveva una sorella cieca».
Lo Stato italiano fa tanto, fa poco o non fa quasi nulla per i paraplegici?
«Fa abbastanza. Ma non li mette nelle condizioni di diventare contribuenti, anziché assistiti. In Gran Bretagna le persone svantaggiate vanno a farsi la spesa da sole in motocarrozzella. Da noi diventano un costo sociale per colpa dei marciapiedi, le teniamo prigioniere in casa. Ha notato che negli aeroporti non ci sono gradini? Perché i viaggiatori hanno un trolley da spingere. La persona con un handicap vale meno di un trolley?».
L’espressione «diversamente abile» come le suona?
«Come una minchiata».
Quando stava bene che cosa pensava delle persone in carrozzella?
«Non le vedevo proprio. Credevo che non esistessero».
Il suo carattere è peggiorato dopo... come devo chiamarlo? incidente? disgrazia?
«Fortuna». (Ride). «I miei feritori non sono mai stati individuati. Verso di loro non provo rabbia. Credo che da tutte le esperienze, anche quelle negative, alla fine si possa imparare molto. Un bambino mi ha chiesto: “Ma se tu potessi riportare il calendario al 2000?”. Ci ho pensato. Non so se tornerei indietro. Ho conosciuto un mondo che mi ha migliorato».
Qual è la sua reazione di fronte a gravi episodi di criminalità?
«Siamo in balia del destino. Gli incidenti paradossali sono cronaca quotidiana. Un automobilista vede un cavallo scappato dal maneggio, frena d’istinto, il purosangue gli salta sulla capote. Tetraplegico. È accaduto qui vicino, a Monteviale. Il mio amico Gino Tezza smette di fare bob e rafting, perché sono sport pericolosi. Un giorno va in piscina a San Bonifacio con il figlioletto, schiva un bambino sullo scivolo, finisce dove l’acqua è più bassa. Tetraplegico. E quelli che si ammalano? Che colpa ne hanno? Non posso prendermela con il caso».
Non ha avuto paura degli uragani, mentre attraversava l’oceano?
«Con il mare forza 9 ti metti in assetto conservativo, riduci le vele e vai avanti. Come nella vita».
Qual è stato il momento più bello nella traversata dell’Atlantico?
«L’ultima alba sopra Key West, ormai in vista di Miami. Dall’aurora fino a quando il sole s’è levato alto sull’orizzonte. Mi sono sentito...». (La voce s’incrina). Grazie, grazie, grazie a tutti. E un po’ anche a me stesso».
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