Luigi Marcon onora l’eredità di papà: l’ateo amico di Margherita Hack che costruiva telescopi dentro a una chiesa

L’artigiano che fa vedere le stesse alla Nasa e alla Specola vaticana: «Mio papà Gianfranco in casa teneva una tigre»

Stefano LorenzettoStefano Lorenzetto

In un mondo che assomiglia sempre di più alla Galleria degli Specchi di Versailles, in cui Luigi XIV ne fece allineare ben 357, e che vede metà dell’umanità intenta a guardare 24 ore su 24 la propria immagine riflessa in smartphone, monitor, tv, tablet, laptop, notebook, Luigi Marcon preferisce osservare il firmamento attraverso gli specialissimi specchi circolari dei suoi telescopi. Come quello, del diametro di 155 centimetri che ha installato per conto dell’Istituto nazionale di astrofisica presso l’Osservatorio di Toppo di Castelgrande, in Basilicata, il più grande del suo genere realizzato in Italia.

Se nella sua officina di via Isonzo, a San Donà di Piave, osi avvicinarti troppo a uno di questi preziosi manufatti, Marcon ti fulmina: «Fermo! Non respiri, non parli, si allontani. Basterebbe un’impercettibile gocciolina della sua saliva per rovinare per sempre lo specchio», al che ti ritrai nel timore che dalla tua bocca esca inavvertitamente qualcosa che, una volta montato lo specchio dentro un osservatorio, potrebbe essere in futuro scambiato per una supernova.

 

Uno specchio secondario alluminato pronto per il montaggio

L’uomo delle stelle è titolare della Marcon ottica meccanica, meglio nota nel mondo come Marcon telescopes, la più rinomata industria artigiana del ramo spaziale, la prima fondata in Italia, pioniera nei telescopi a infrarossi, con ottiche in alluminio fino a 3 metri di diametro, che costano milioni di euro e richiedono più di un anno di lavoro. Quella che vanta fra i propri committenti la Nasa e la Specola vaticana, ma anche Cnr, Alenia Aerospazio, Enel, Cise, Officine Galileo.

Quella che ha fornito all’Enea le attrezzature per il Programma nazionale di ricerche in Antartide.

Quella che ha creato due ottiche paraboliche fuori asse per consentire alla Sapienza di Roma e all’Università di Pasadena in California di studiare la teoria del Big Bang e di ottenere, dalle immagini scattate, informazioni sulla temperatura dell’universo primordiale.

Quella che ha piazzato un telescopio infrarosso da 2,6 metri di diametro a 3.488 metri di quota sul Plateau Rosa, sopra Cervinia.

Quella che ha attrezzato gli osservatori astronomici di Trieste, Asiago, Torino, Catania, Teramo, L’Aquila, Merate, Capodimonte, Campocatino, Borgo Coloti, San Marcello Pistoiese, Alpette, Peccioli.

Quella che ha lavorato per enti scientifici internazionali, dall’European synchrotron radiation facility di Grenoble alla Cardiff University.

L'Osservatorio di Castelgrande

Marcon, diploma di perito tecnico industriale conseguito all’istituto Leonardo Da Vinci di Portogruaro, ha 51 anni. Ne aveva appena 16 quando cominciò a lavorare nell’azienda di famiglia. Nel 2001 l’ha ereditata dal padre Gianfranco, che sarebbe venuto a mancare nel 2022. «È stato un grosso trauma, ha lasciato un vuoto enorme in famiglia e nel lavoro. È come se si fosse spento un faro. Cerco di onorare ogni giorno la sua memoria». Avendo conosciuto il genitore quando ancora era in piena attività, 10 anni prima che morisse, comprendo lo smarrimento del figlio.

Già insegnante di matematica e fisica, ex sindaco leghista, Marcon era un personaggio dalla spiccata personalità, che non passava inosservato. Il suo laboratorio prende luce da un rosone biancoceleste. Chi arrivava dagli Stati Uniti e non trovava la strada, gli telefonava: «I see a church», vedo una chiesa, e si sentiva rispondere: «Benòn, allora vuol dire che sei arrivato».

Sul soffitto aveva inchiodato il mantello di una tigre, completo di testa e zampe, morta di vecchiaia. Era appartenuta al circo di Moira Orfei. Nella casa accanto all’officina, aveva svezzato un tigrotto. Glielo regalò Walter Nones, il marito di Moira, perché era nato con una malformazione intestinale. Dormiva in camera con la figlia Raffaella: il felino credeva che fosse la sua mamma. «Purtroppo non ha superato i quattro mesi», si rattristava. «Siamo animali anche noi uomini. Mi meraviglia molto che i politici non studino la zoologia: capirebbero molte cose».

Prima che un astronomo, suo padre era uno zoologo.

«Aveva imparato da solo l’arte della concia e della tassidermia. I suoi interessi spaziavano dai cinghiali agli anaconda. Allevava caprioli da compagnia. Scrisse L’ultima lontra del Piave, in ricordo di una slòdra che fu uccisa nel 1947. Allora il mustelide era considerato res nullius. Faceva razzie nei pollai. La sorpresero fuori dall’acqua. Una bestia incantevole, con una pelliccia stupenda: 100.000 peli per centimetro quadrato. Mai più rivista da queste parti. Papà diceva: “Quando tornerà sulle rive del fiume sacro alla patria, vorrà dire che la natura ha ripreso a comandare, com’è suo diritto”».

A fondare nel 1948 la Marcon fu suo nonno Virgilio, se non rammento male.

«Esatto. Un autodidatta che si era costruito il primo telescopio di tipo Newton con uno specchio rotto proveniente da una casa padronale, recuperato in discarica. Lo sagomò utilizzando come utensile un pezzo di colonna in pietra d’Istria adocchiato sott’acqua durante una nuotata nel Piave. Usò la sabbia del fiume per smerigliarlo. Aveva un diametro di 12 centimetri. Pensi che il cannocchiale di Galileo Galilei, quello con le lenti in vetro di Murano che lo scienziato pisano presentò al doge Leonardo Donà sul campanile di San Marco nell’agosto del 1609, misurava meno di 7 centimetri».

Era appassionato di astronomia?

«Più che altro di arte. Era nato nel 1903. Mio bisnonno Luigi, contadino, pensava che studiare fosse tempo perso, per cui gli fece frequentare sino alla quarta elementare a Ponte di Piave. Poi lo ritirò e lo mandò nei campi, dicendogli: “Hai imparato abbastanza”. Ma al bisnonno rimase la sete di sapere. Finita la naia, tornò a fare il contadino per pagarsi gli studi serali e conseguì l’abilitazione all’insegnamento artistico nelle scuole del regno. Uno zio materno, fascista, lo iscrisse al Pnf firmando al posto suo. Lui si seccò molto, ma non si ribellò. Era talmente benvoluto dalla popolazione che il federale di Treviso lo nominò podestà di Zenson di Piave. Ricoprì l’incarico per 11 anni. E nello stesso tempo riuscì pure a fare il partigiano. Guidò i Volontari della libertà dopo la fucilazione, avvenuta nel dicembre 1944, del loro comandante, il conte Gustavo Badini, martire della Resistenza. Salvò la vita a parecchi ebrei nascondendoli nelle case dei contadini».

Perché, finita la guerra, decise di farsi un telescopio?

«Il nonno materno gli aveva trasmesso la passione per l’astronomia. Un giorno il professor Giulio Romano, abitante a Treviso, gli mostrò una rivista statunitense che parlava di un telescopio costruito in casa da un gruppo di astrofili. “Saremo mica più stupidi degli americani, noi veneti?”, commentò mio nonno. E se ne fece uno uguale».

Quando lo conobbi, suo padre Gianfranco mi raccontò che da 12 anni non rinnovava la tessera della Lega.

«Se ne andò senza sbattere la porta. Spiegava che il Carroccio aveva rappresentato il nuovo, ma poi aveva perso lo slancio. Nel profondo dell’animo era socialista. Secondo lui un politico doveva fare gli interessi della società. Fu sindaco di San Donà di Piave dal 1994 al 1998. Ci rimise mezzo miliardo di lire in fatturato. E scoprì con amarezza che la pensione mensile gli era stata decurtata di 500 euro a causa dei mancati versamenti dovuti a quella perdita».

Si era fatto parecchi nemici.

«Come sindaco s’inventava scuse d’ogni genere pur d’impedire nuove urbanizzazioni. Sosteneva che, se continui a tirar su case, qualcuno viene ad abitarle e così si altera l’equilibrio sociale della comunità».

Quanti telescopi avete costruito insieme?

«Non li abbiamo mai matricolati. Nell’ordine delle migliaia, credo. Ma non esiste soltanto l’astronomia. Ci sono anche ottiche che vengono montate per dare la traiettoria a un cannone, o per teleguidare un missile, o per controllare l’inquinamento atmosferico. O per evitare un altro disastro del Vajont».

Che intende dire?

«L’Enel ci fa tarare un telescopio su un punto fisso che sta a monte di una diga. Uno scostamento, anche infinitesimale, avverte che il terreno è in movimento e si sta preparando una frana. Se ce ne fosse stato uno puntato verso il monte Toc, nel 1963 la valanga d’acqua non avrebbe spazzato via Longarone».

Qual è il telescopio di cui va orgoglioso?

«Un tempo si riteneva che il famoso Hale sul monte Palomar, in California, fosse il massimo, oggi invece è superato nonostante i suoi 5 metri di apertura. Siamo stati i primi al mondo a mettere a punto l’ottica innovativa che ha consentito di vedere la radiazione fossile e di studiare il Big Bang».

Fino a che distanza mette a fuoco il più potente dei suoi telescopi?

«Fino a miliardi di anni luce, tenendo conto che in un anno la luce percorre 9.461 miliardi di chilometri. In una notte serena e nella mezza volta celeste che sta sopra la sua testa lei può vedere a occhio nudo una media di 6.000 stelle. Riesce addirittura a scorgere la galassia di Andromeda, che dista 2,5 milioni di anni luce dalla Terra. Però papà si lamentava perché con il telescopio tante stelle e nebulose oggi non si possono più ammirare».

Per quale motivo?

«Troppe luci parassite. Un tempo lui puntava la lampadina che era sempre accesa sul campanile di Noventa di Piave. A un certo punto non vide più né la lampadina né il campanile. Avevano costruito tutt’intorno. Ormai le notti sulla Terra sono illuminate a giorno. Più accende luci e più l’uomo si sente ricco, importante. “Invece xe solo più mona”, scuoteva la testa mio padre».

L'operazione di montaggio di uno specchio secondario
L'operazione di montaggio di uno specchio secondario

Come mai in officina trovo solo lei?

«Ha una domanda di riserva? È la dura realtà delle aziende artigiane. Reperire personale specializzato è una fatica improba. Provi a cercare un bravo fresatore o un tornitore e scoprirà di cosa sto parlando. Nel mio caso è praticamente impossibile trovare il modo per formare un collaboratore in azienda, perché ciò significherebbe trascurare enormemente il lavoro. E se poi mentre impara sbagliasse? Esemplifico. Qui facciamo anche le alluminature, ovvero quel trattamento superficiale di deposizione che serve per far diventare specchio un vetro che altrimenti sarebbe trasparente. Questo richiede professionalità ed esperienza enormi. Non posso rischiare che un apprendista mi scheggi uno specchio: rifarlo comporterebbe tempi lunghi e costi elevati».

Dove si trovano i più importanti telescopi che avete installato nel Veneto e in Friuli-Venezia Giulia?

«A Crespano del Grappa, presso il Centro spirituale Don Paolo Chiavacci, dove si svolge una considerevole attività divulgativa, ci sono quattro nostri telescopi. Recentemente abbiamo fatto un aggiornamento ragguardevole all’Osservatorio astronomico Col Drusciè gestito dall’Associazione astronomica Cortina, dove è possibile per il pubblico partecipare a serate osservative in uno scenario unico. In Carnia ce n’è uno da 70 centimetri di apertura a Zuglio, presso l’Osservatorio astronomico della Polse di Cougnes. Abbiamo installato un telescopio Ritchey-Chretien a Basovizza, dentro la specola intitolata a Margherita Hack, sede distaccata dell’Osservatorio astronomico di Trieste».

Suo padre aveva collaborato con Hack.

«Sì, quando l’astrofisica dirigeva l’osservatorio triestino. “Xe atea patòca come mi”, rideva. Il curato di San Donà di Piave ebbe la brillante idea d’invitarla per una conferenza. Monsignor Angelo Dal Bo, parroco del Duomo, telefonò preoccupato a mio padre affinché pregasse la scienziata di contenersi. Lui se la cavò con una bugia: “Guarda che sono stato io a proporre ai preti di chiamarti a parlare qua, perciò cerca di non farmi fare brutta figura”. Avrebbe dovuto sentire come la sua amica Hack riusciva a divagare per non urtare la sensibilità dei credenti».

Suo padre era un grande costruttore di telescopi, però all’astronomia preferiva la lirica.

«Sì, è vero. Era più che altro un melomane. A 16 anni raggiunse tre volte in bici la villa di Lancenigo dove abitava Mario Del Monaco. Ma non trovò mai il coraggio per suonare il campanello. Un giorno andò persino all’osteria di fronte a bere una China Martini per darsi forza. Niente. Finché capitò qui in officina, a ordinargli un telescopio, il fratello del tenore, Marcello, maestro di canto. Così finalmente papà conobbe Del Monaco. Rimasero amici sino alla fine. Mario era in dialisi da anni, eppure, quando incontrava mio padre, cantava per lui Ridi, pagliaccio».

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