Il pioniere della chirurgia robotica Artibani: «A Padova ho cercato di far vincere il merito, mi hanno bloccato»

L’ex presidente della Società italiana di urologia: «La chirurgia è la mia gioia»

Stefano Lorenzetto
Il professor Walter Artibani, 75 anni, da mezzo secolo in Veneto. Ha diretto le cliniche urologiche delle Aziende ospedaliere universitarie di Padova e di Verona

Il professor Walter Artibani, già presidente della Società italiana di urologia, arrivò in Veneto nel 1973, fresco di laurea in medicina e chirurgia conseguita con 110 e lode all’Università di Firenze.

Gèza Dell’Adami De Tarczal, cattedratico trentino di ascendenze ungheresi, lo prese sotto l’ala nella propria divisione al Policlinico di Verona che, da figlio di un ufficiale degli ussari, governava più con il piglio del feldmaresciallo Ferencz Gyulai che con quello del primario.

Per capire che cosa fosse l’urologia scaligera ai tempi del professor Dell’Adami, va aperta una parentesi sul suo amico Rolly Marchi, giornalista, alpinista e sciatore, l’unico al mondo ad aver seguito tutti i Giochi olimpici invernali dal 1948 in poi.

I lettori di Topolino che oggi hanno i capelli bianchi lo ricordano con un cappello da cowboy, regalatogli da Walt Disney perché aveva inventato con Mike Bongiorno il trofeo Topolino-Agfa in cui da piccoli esordirono Gustav Thoeni, Ingemar Stenmark, Deborah Compagnoni, Isolde Kostner e Alberto Tomba.

Marchi nel 1966 aveva fatto uno straordinario regalo allo scrittore bellunese Dino Buzzati, suo grande amico, che festeggiava i 60 anni. Lo portò in cordata fin sulla Croda da Lago, nelle Dolomiti ampezzane, dove l’autore del Deserto dei Tartari era stato solo una volta da giovane.

Sei anni dopo, consumato da un tumore al pancreas, Buzzati in punto di morte se ne ricordò nel proprio diario: «La storia è terminata, sta per terminare tra l’assoluta indifferenza del pubblico pagante... Ho visto risplendere a nord le montagne di vetro, pure, supreme, dove mai più; cari miraggi di quand’ero ragazzino, rimaste intatte ad aspettarmi e adesso è tardi, adesso non faccio più in tempo...».

Furono le sue ultime parole.

Artibani opera con il robot Da Vinci. Alle sue spalle, il giornalista Stefano Lorenzetto, autore della intervista

Sul finire degli Anni Settanta, Indro Montanelli telefonò a Marchi e gli disse: «Senti Rolly, devo farmi togliere la prostata. Mi hanno spiegato che il più bravo per questo genere d’interventi è il professor Dell’Adami, trentino come te. Me lo confermi?». Marchi confermò.

E così il futuro fondatore del Giornale decise di farsi operare a Verona.

Durante la convalescenza, l’amico gli telefonò: «Allora, Indro, come va?». E Montanelli: «Benissimo! In bagno prima ero spettatore. Adesso sono attore».

In mezzo secolo di professione, Artibani, 75 anni, aretino di San Giovanni Valdarno, ha sempre mantenuto la residenza in Veneto.

Nel 2019, lasciata per la pensione la divisione di urologia che lo aveva accolto giovanissimo, ha lavorato al Policlinico di Abano, l’ospedale privato di Nicola Petruzzi.

Nel frattempo, ha scritto per le Edizioni Minerva Medica un trattato sulla vescica ileale padovana, tecnica ideata da lui: «Tolto l’organo colpito dal cancro, si ricostruisce usando una porzione di intestino tenue».

Oggi opera in due strutture convenzionate con la Regione Veneto: l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) e l’ospedale San Camillo di Treviso.

Prima di quest’ultime esperienze, Artibani nel 2005 aveva accettato di dirigere la clinica urologica dell’Azienda ospedaliera di Padova (che con le sue sei sale operatorie è la più importante d’Italia) e la Scuola di specializzazione dell’ateneo patavino: aveva l’ambizione di rientrare là dove si era formato da giovane assistente.

Walter Artibani (a destra) riceve il John Wickham award 2019 per l'nnovazione in chirurgia robotica

Dopo quattro anni compì il percorso inverso: rientrò al Policlinico e all’Università di Verona. «Commisi un peccato di hybris», si autoflagella, paragonandosi all’uomo che nell’antica Grecia, credendosi invincibile, sfidava gli dei e infrangeva le loro leggi.

Il chirurgo, dopo una condanna per abuso d’ufficio, tornò nella città da dov’era venuto e fruì della riabilitazione. Ma a violare vieppiù le leggi fu il luogotenente dei carabinieri Franco Cappadona, che batteva i corridoi dell’ospedale di Padova e indagò anche su Artibani.

Siccome il tempo è galantuomo, Cappadona fu condannato dalla Corte dei conti a pagare 80.000 euro per danno d’immagine all’Arma. Due sentenze definitive della Cassazione lo hanno poi portato in carcere per 2 anni. Dall’aprile 2023 è agli arresti domiciliari per altri 2 anni e 4 mesi.

Che accadde, di preciso?

«Cercai di favorire la meritocrazia, opponendomi alle carriere pilotate. In Italia non si può fare. Devi essere allineato, altrimenti ti stoppano per via giudiziaria. Mi era già accaduto qualcosa di simile nel 1994, quando fui chiamato dall’Università di Modena a dirigere l’unità operativa di Urologia. Doversi dimettere è nel nostro destino».

Vale a dire?

«Sono stato segretario generale dell’International continence society. Da buon campagnolo arrivai a Bristol e la prima cosa che feci fu cambiare il direttore della rivista Neurourology and Urodynamics, Jerry Blaivas, famoso docente della Icahn school of medicine del Mount Sinai di New York, in carica da 24 anni. Scoppiò una guerra. Blaivas mollò la poltrona con un magnifico discorso: “Mi tocca andarmene proprio ora che avevo imparato come si fa”. Vale anche per la vita».

Non mi sembra una prospettiva imminente.

«In effetti mi considero ancora giovane, mi sento 20 anni in meno di quelli che ho, merito di una nutrizionista veronese di vaglia, Rita Meloni. Soprattutto sono sempre pronto all’innovazione e ho il desiderio di restituire il bene che ho ricevuto. Ogni tanto mi chiedono: “Ma opera ancora?”. Rispondo: certo, è la cosa che mi riesce meglio e che mi dà più gioia. Sono felice quando i colleghi mi coinvolgono per casi complessi, difficili da risolvere con la sola chirurgia mininvasiva oggi imperante».

Si dice che all’origine della disavventura giudiziaria in cui incappò vi sia stato un dissidio con il suo maestro Francesco Pagano.

«Ho avuto la fortuna di vivere la crescita della grande Urologia di Padova, grazie all’impulso formidabile del professor Pagano, al quale devo molto sia nel bene, con imperitura gratitudine, sia nel male. Non ho rimpianti e rifarei tutto quel che ho fatto, incluso il peccato di lesa maestà che mi è costato un calvario giudiziario. Tempus omnia revelat».

Il tempo svela tutto.

«Già. Considerate le personalità reciproche, non c’è stato spazio per un chiarimento, e mi dispiace. Di sicuro ho peccato d’ingenuità, finendo coinvolto in un gioco troppo grande per un piccoletto. A padre Pio viene attribuita una frase: “C’è qualcuno che combina le combinazioni”. Talora le subiamo, talora le determiniamo, coscienti o inconsapevoli».

Perché scelse di dedicarsi all’apparato urogenitale?

«Non lo scelsi io. Liliana Artibani, sorella di mio padre Silvano, era la moglie di Giovanni De Bastiani, luminare dell’ortopedia che mise a punto un sistema per allungare le gambe ai nani. Appena giunsi a Verona, De Bastiani, volendo stroncare sul nascere qualsiasi sospetto di nepotismo, mi dirottò da Gèza Dell’Adami: “Vedi se ti vuole con sé”. Per il primario facevo anche il cartellucciaio nel suo studio privato».

Il cartellucciaio? Cioè?

«Compilavo i cartellini dei pazienti con anamnesi e informazioni su patologie personali ed ereditarie, dopodiché il professore li visitava e formulava la diagnosi. Era un fenomeno. Si concedeva dei pisolini stando in piedi, con le spalle appoggiate al muro».

Come Bettino Craxi.

«Il padre gli aveva insegnato che i cavalleggeri ussari dovevano allenarsi per essere pronti alle cariche. “In chirurgia è lo stesso”, ammoniva. I pazienti lo adoravano, trovavano in lui un porto sicuro.Divenne docente ordinario a Padova, poi tornò a Verona. Ebbe un infarto in sala operatoria. Siccome non stava alle regole, dopo una settimana ne ebbe un altro, che gli fu fatale. La sua eredità è stata raccolta dal figlio Andrea, urologo a Trieste».

Perché fa il medico?

«A dire il vero, io sognavo di giocare nell’Inter. Ero ala destra nella Castelnuovese. Quando torno al paese natio, gli amici esclamano: “Ecco il calciatore!”. Da giovane stavo per andare alla Spal, però mio padre mise il veto. In alternativa mi sarebbe piaciuto diventare giornalista sportivo. Me la cavavo bene con italiano, greco e latino».

Mi sta dicendo che la medicina fu un ripiego?

«Non proprio. Avevo 3 anni. Papà, ingegnere all’Enel, si ammalò di sclerosi multipla. Ne seguii tutto il declino: stampelle, carrozzina, letto. Avrei voluto diventare neurologo per curarlo, ma in casa non c’erano soldi, così dovetti ripiegare su una specialità con studi più brevi. Morì quando avevo 24 anni. Fece in tempo a vedermi laureato».

Ha fratelli?

«Uno solo, Claudio, morto per un tumore alla prostata, che raramente è letale. Ne sviluppò un secondo al pancreas, inoperabile. Se ne andò in cinque mesi. Guarire tanti malati e non riuscire a salvare il proprio fratello minore ti scava dentro».

Che patologie diagnostica con maggiore frequenza?

«I tumori. In 80 persone su 100 alla prostata, in 15 alla vescica, in 5 al rene. Poi l’ipertrofia prostatica benigna, che colpisce 9 maschi su 10 passati i 60 anni, e i disturbi conseguenti: difficoltà a urinare, frequenza e urgenza imperiosa nella minzione, incontinenza urinaria».

Come si prevengono?

«Con la visita urologica, obbligatoria almeno a 50 anni. Un tempo quella di leva scopriva patologie come il testicolo ritenuto, la fimosi, il varicocele e l’enuresi notturna, un disturbo che comportava l’esonero dalla naia».

Cause dell’incontinenza?

«O non funziona il serbatoio, la vescica, o non funziona il rubinetto, lo sfintere uretrale, o non funzionano entrambi. Nelle donne si manifesta quella da sforzo, uno strascico di gravidanze e menopausa. Bastano un colpo di tosse, il sollevamento di un peso o una risata per provocare una perdita. Si chiama Ius e rappresenta il 70 per cento dell’incontinenza femminile. Ne soffrono circa 3 milioni di italiane».

Bombardate all’ora di cena da spot tv sugli assorbenti.

«In passato era considerato un fatto normale. L’anziana contadina, che aveva avuto parecchi figli, andava al lavoro nei campi addirittura senza mutande, si bagnava e non diceva nulla. Rivolgersi al medico sarebbe stato inconcepibile. Oggi la donna in carriera vive la stessa mortificante esperienza. L’età media avanza. È stata coniata un’espressione sgradevole, “Repubblica dei pannoloni”, che però fotografa bene la situazione: per acquistarli si spendono 300 milioni di euro l’anno, 255 dei quali a carico dello Stato».

Il pannolone è evitabile?

«Certo. Si comincia con gli esercizi di Kegel, una fisiokinesiterapia del pavimento pelvico. La chirurgia offre gli sling mediouretrali: sono fionde che sostengono l’uretra, funzionano in 9 casi su 10. Negli uomini l’incontinenza è iatrogena, cioè conseguente a interventi, per esempio alla prostata, e allora diventa più complesso affrontarla. Gli sfinteri artificiali hanno una percentuale di successo dell’80 per cento».

Età media dei pazienti che vede per la prima volta?

«Intorno ai 55 anni».

Perché temono l’urologo?

«Hanno paura dell’esplorazione rettale, benché sia un esame fisico che dura da 20 a 60 secondi. Indispensabile per stabilire dimensioni, consistenza, simmetria e dolorabilità della prostata».

È proprio indispensabile?

«Certo. La risonanza magnetica multiparametrica offre informazioni incomparabili, ma consistenza e dolorabilità sono valutabili solo con l’esplorazione rettale».

L’impotenza è in aumento?

«Sì, per fattori sociali e psicologici. Penso al gender fluid, il rifiuto di identificarsi stabilmente nel genere maschile o femminile. Quando l’impotenza si manifesta all’improvviso in età giovanile, diventa un campanello d’allarme per le disfunzioni cardiache, considerato che le arterie peniene hanno lo stesso calibro di quelle coronariche».

Beh, ma oggi c’è il Viagra.

«Molecole prodigiose, sildenafil e similari. Una cascata di ossido nitrico che riattiva l’erezione spontanea. Ha prolungato la vita sessuale fino ai 90 anni».

Nei maschi renitenti alla visita urologica non giocherà un ruolo l’ansia da prestazione?

«Anche. La fissa sulle misure del pene nasce in età pediatrica e riguarda più che altro le madri. Vengono in studio e mi chiedono: “Perché il mio bambino ce l’ha piccolo?”. Non è vero, ovviamente. L’ossessione inizia così. Capiamoci, in natura esistono anche i micropeni, però in tanti anni di professione ne avrò visti sì e no una ventina».

Presumo che quel bimbo verrà da lei a cercare aiuto da adulto.

«Una decina di pazienti l’anno. Devo deluderli: non esiste alcun modo per aumentare lunghezza e diametro dell’organo genitale maschile».

Che differenza c’è fra un confessore e un urologo? Il prete dà l’assoluzione e lei la soluzione?

«Il prete offre consigli per l’anima, il medico per il corpo: niente fumo, poco alcol, dieta equilibrata, moto costante ma non eccessivo, dormire il giusto, coltivare la cultura e la spiritualità».

Perché aumenta il numero degli adolescenti che rifiutano il genere maschile o femminile d’appartenenza?

«C’entrano l’emulazione e le mode. Vi è un’esasperata focalizzazione su questo fenomeno. È fatale che a un giovane in fase di crescita vengano tutti i dubbi del mondo. Incide anche il rapporto fra maggioranza e minoranza».

In che senso?

«Nel senso che la prima non deve essere oppressiva e la seconda non può diventare tirannica. Invece oggidì la minoranza vociante funge da maggioranza e la maggioranza silenziosa diventa minoranza. È un’asimmetria, una mancanza di equilibrio tra le parti di un insieme».

I maschi del nostro tempo sembrano spaventati dalle femmine. È così?

«Hanno paura della seduzione. Il corteggiamento ormai è possibile solo con un avvocato al tuo fianco».

Anche lei ha avuto bisogno di un legale, sia pure per altre ragioni.

«Ho analizzato con cura per lunghi anni la mia disavventura all’Università di Padova e sono arrivato ad alcune conclusioni definitive».

Quali?

«I meriti professionali non sono tutto. Esistono anche quelli legati ai valori delle persone, per cui a volte finisci per scegliere l’uomo sbagliato sebbene con i titoli giusti. Se poi applichi la trasparenza, ti procuri soltanto dei nemici. Infine, ho capito che sono le regole a determinare i comportamenti. Prudenza, diligenza e perizia sono tre princìpi che dovrebbero valere per tutte le professioni con ricadute sulle vite altrui: medicina, magistratura, giornalismo. Ma così non è».

Concordo.

«Voi cronisti, in particolare, avete una responsabilità enorme, perché siete in grado di condizionare il pensiero collettivo: la vostra narrazione supera e modifica i fatti e dunque le reazioni».

Può dirlo con altre parole?

«Vuole un esempio? La chirurgia con il robot Da Vinci è stata da me introdotta a Verona e a Padova fra il 2004 e il 2005. Eppure sui giornali viene presentata come se fosse una novità dell’ultima ora».

Come mai lasciò la sanità pubblica in anticipo?

«Mi nauseava l’impostazione burocratica oppressiva, in cui la professionalità era l’ultima cosa a valere».

Nel privato è diverso?

«Senza dubbio. Nella clinica di Abano ho lavorato con due colleghi validissimi, Angelo Porreca e Daniele Romagnoli. Al Sacro Cuore Don Calabria di Negrar sono strafelice di poter continuare la mia attività chirurgica in collaborazione con il primario Stefano Cavalleri, che è stato al mio fianco per anni al Policlinico di Verona e nella clinica urologica di Padova. Con lui ho trovato uno staff composto all’80 per cento da colleghi usciti dalla Scuola di specializzazione di urologia che ho diretto. Tutto l’ambiente è permeato da empatia umana verso chi soffre e questo è un lascito del fondatore Giovanni Calabria, un santo. Il quale ai medici e agli infermieri diede un comandamento che non è andato disperso: “L’ammalato, dopo Dio, è il nostro padrone”. Uno spirito che ritrovo anche al San Camillo di Treviso, dove opero con il collega Giuseppe Tuccitto».

E lei quale comandamento si è dato?

«Ripeto spesso una massima: “La chirurgia è il fallimento della medicina”. Propugnata da un chirurgo, è controintuitiva. Al di là della palese estremizzazione, prevenzione e previsione delle malattie sono il futuro. Negli anni a venire la buona medicina sarà quella che evita l’insorgere delle malattie. Ma senza arrivare agli eccessi dell’antica Cina, quando il medico di corte veniva condannato a morte se l’imperatore si ammalava: era reo di non aver impedito l’insorgere del morbo».

Come vede la sanità nel nostro Paese?

«Mi procura malessere vivere in un Paese basato sui diritti che ha dimenticato i doveri. Ma questo capita in tutte le professioni. Quando vai avanti con gli anni, ti viene spontaneo un ritornello: ai miei tempi... Beh, ai miei tempi da specializzando si pagavano le tasse e non si guadagnava niente. Ai miei tempi da giovane assistente si entrava di guardia il venerdì e si usciva dall’ospedale il lunedì sera, mentre oggi dopo 12 ore scatta il recupero. Ai miei tempi s’imparava dal maestro. Non voglio affermare che fosse l’ideale vivere come Christiaan Barnard, il chirurgo sudafricano che eseguì il primo trapianto di cuore nella storia della medicina. Lui lavorava giorno e notte e si riposava solo il sabato e la domenica. Ma fu anche per quello che diventò Barnard. Senza impegno strenuo e senza dedizione continua, non esiste il diritto di eccellere».

© MARSILIO EDITORI

Riproduzione riservata © il Nord Est