Giuseppe Baschirotto: «Nel ricordo di nostro figlio, morto a 16 anni con i capelli bianchi, cerco cure per 8 mila malattie rare»

Ha creato una fondazione benedetta da Watson, il premio Nobel che scoprì il Dna. «Mauro cominciò a star

male ad Asiago. La prima diagnosi fu polinevrite. Solo dopo 10 anni che era morto fu scoperta l’Apeced, che provoca problemi endocrini, ritardo nella crescita e canizie precoce»

Stefano LorenzettoStefano Lorenzetto
Il professor Baschirotto. Studiò con Romano Prodi e Renato Curcio

Sono circa 8.000. Secondo le statistiche colpiscono 1.000 individui ogni 50 milioni, altre fonti parlano di 5 ogni 10.000, altre ancora di 50 bambini su 1.000 condannati fin dalla nascita. Di solito le chiamano con il cognome dei medici che le hanno individuate per primi o degli scienziati che le hanno studiate, senza riuscire a guarirle. Quasi un modo per rendercele familiari: l’anemia di Fanconi, la sindrome di Aicardi, l’angioedema di Quincke, l’atassia di Friedreich, il morbo di Paget, la deformazione di Madelung, il glaucoma congenito di Peters, la porpora di Schönlein-Henoch, la tromboastenia di Glanzmann.

Spesso le chiamano con il solo cognome preceduto dall’articolo, come usa fra vicini di casa: il Parkinson, l’Epstein Barr, la Zollinger-Ellison. Eppure di familiare non hanno proprio niente. Sono malattie rare. Possono aggredire chiunque. Per questi pazienti i medici hanno distillato gli eufemismi più ipocriti, che vanno dalla «patologia severa» alla «prognosi infausta».

Giuseppe Baschirotto e Anna Albarello con i ricercatori della Fondazione malattie rare Mauro Baschirotto
Giuseppe Baschirotto e Anna Albarello con i ricercatori della Fondazione malattie rare Mauro Baschirotto
I ricercatori con gli studenti in visita alla Fondazione Mauro Baschirotto a Costozza di Longare (Vicenza)
I ricercatori con gli studenti in visita alla Fondazione Mauro Baschirotto a Costozza di Longare (Vicenza)
Mauro Baschirotto. Morì nel 1987
Mauro Baschirotto. Morì nel 1987
Giuseppe Baschirotto, originario di Bassano del Grappa, 84 anni il 22 febbraio. La moglie Anna Albarello, nata a Este, ne farà 80 il giorno dopo
Giuseppe Baschirotto, originario di Bassano del Grappa, 84 anni il 22 febbraio. La moglie Anna Albarello, nata a Este, ne farà 80 il giorno dopo

Gli uomini sono fatti così, pensano di esorcizzare la morte con le parole. Per esempio, hanno chiamato corea di Huntington – dal greco choréia, danza – la malattia descritta per primo dal medico newyorkese George Huntington nel 1872, contrassegnata dai movimenti involontari che scuotono il paziente e che si accompagnano a una progressiva demenza. Ma nel Meridione d’Italia la conoscevano già come ballo di San Vito. Una delle sindromi genetiche più tragiche è diventata poeticamente Cri du chat, perché il neonato appena partorito emette un flebile gemito simile al miagolio del gatto, anziché un normale vagito.

Giuseppe e Anna Baschirotto hanno avuto una sfortuna in più. Solo dopo un quarto di secolo s’è scoperto che cosa avesse ucciso Mauro, il loro terzogenito: Apeced, acronimo che in inglese sta per poliendocrinopatia autoimmune con candidiasi e displasia ectodermica. Quando morì, il 19 maggio 1987, stava completando con profitto la prima classe all’istituto per geometri. Nel 1970 i Baschirotto avevano perso Silvia, la secondogenita, tre mesi di vita, per una broncopolmonite. Oggi gli restano due figlie sane.

Qualsiasi altra coppia non avrebbe resistito a una tragedia di queste proporzioni. Non Baschirotto, originario di Bassano del Grappa, 84 anni il 22 febbraio, barba da profeta, che ha passato la vita a cercar di capire: prima alla facoltà di sociologia di Trento, dove ha avuto per compagni di studi Romano Prodi, Francesco Alberoni, Beniamino Andreatta e Renato Curcio («allora era un sant’uomo»), poi nelle aule scolastiche, dove ha insegnato materie scientifiche, infine nella multinazionale Honeywell. Non sua moglie Anna, nata a Este, che festeggia gli 80 il giorno dopo il compleanno del marito, ex docente di lettere, coraggiosa come sanno esserlo solo le madri fatte per portare il mondo, costretta a seppellire il suo scricciolo di appena 16 anni con i capelli già completamente bianchi, come se fosse stato un vecchio di 90, l’estremo oltraggio dell’Apeced.

Così in una villa cinquecentesca a Costozza di Longare, nel Vicentino, hanno creato in ricordo del figlio la Fondazione malattie rare Mauro Baschirotto. È venuto a benedirla il professor James Watson, premio Nobel per la medicina, il biologo di Chicago che nel 1953 scoprì il Dna. Perché qui siamo sulla frontiera della genetica. Ci lavorano una ventina fra medici e ricercatori, «di preferenza fra i 28 e i 38 anni, l’età produttiva più fertile per uno scienziato», spiega Baschirotto, «me lo disse Rita Levi Montalcini». Per ogni malattia rara sono in contatto con i migliori cervelli del mondo. Non è un ospedale vero e proprio, anche se periodicamente ricovera gruppi di pazienti afflitti dal medesimo morbo. «Forniamo assistenza per 500 malattie rare, in 80 di queste possiamo considerarci particolarmente esperti».

Fa male leggere i messaggi che ogni giorno giungono a Costozza. Diego: «Sono un papà che ha il figlio affetto dalla sindrome di Leigh, non conosco niente di questa malattia, potete aiutarmi?». Francesca: «Mia figlia è nata con la microtia dell’orecchio destro. Ho visto che è nella vostra lista delle malformazioni: sono disperata. C’è qualcun altro che sia o sia stato nella stessa situazione?». I genitori Baschirotto a tutti possono rispondere: «Noi». È questo il dolore, è questo il miracolo.

Professor Baschirotto, quando si ammalò Mauro?

«Quando aveva un anno di vita. Alla nascita era sano».

Che accadde?

«Passavamo le vacanze d’agosto ad Asiago. Mauro cominciò a manifestare difficoltà motorie. Era sempre più debole. Lo portammo subito all’ospedale di Vicenza. La prima diagnosi fu polinevrite. Lo imbottirono di antibiotici. Sembrò che migliorasse. Oggi penso che quella cura sia stata l’evento scatenante, che abbia destabilizzato il suo sistema immunitario. Ma è solo una supposizione, prove non ne ho. Solo dieci anni dopo che era morto fu diagnosticata l’Apeced».

Le cognizioni scientifiche erano quelle che erano.

«Già. Tutti parlavano di malattia autoimmune, cioè di uno stato patologico per cui l’organismo produce anticorpi che lo danneggiano. Ma nessuno aveva collegato l’autoimmunità al difetto di un unico gene, come fece il professor Stylianos Antonarakis, genetista di Ginevra. Allora la chiamavano candidiasi cronica mucocutanea. Si sapeva che dava origine a problemi endocrini, ritardo nella crescita, malformazione delle unghie, canizie precoce. La candida, un genere di funghi normalmente presenti nelle mucose e nella cute dell’uomo, in Mauro scatenava reazioni abnormi».

Da chi fu preso in cura?

«Dal professor Franco Panizon, noto primario pediatra di Trieste. Mauro aveva bisogno di sangue prelevato da donatori altamente reattivi alla candida, congelato e scongelato sette-otto volte prima della trasfusione. Quando le scorte erano esaurite, i medici e lo stesso Panizon si praticavano un salasso per dargli il sangue necessario. Finché a 8 anni la candida produsse una meningite».

Com’è possibile?

«È ciò che mi chiesi anch’io. Al massimo provoca il mughetto in bocca. Invece il fungo superò la barriera ematoencefalica. Era un sabato mattina. La diagnosi non fu immediata. Otto specialisti chiamati a consulto all’ospedale di Vicenza si rifiutarono di infilare l’ago nel rachide per paura che la candida entrasse nel midollo spinale. Cercammo invano un elicottero per portare nostro figlio ormai in coma a Trieste. Alla fine trovammo un’ambulanza, ma nessun medico volle assumersi il rischio di accompagnarci: temevano che Mauro morisse nel trasporto».

Pazzesco.

«Solo un’infermiera si offrì di venire, ma fuori dall’orario di lavoro. Panizon abbandonò un congresso medico a Bolzano per precipitarsi al capezzale di Mauro. Alle 10 di sera, con l’esito dell’ago aspirato in mano, spalancò alcuni libroni e mi disse: “Mi aiuti a cercare qualcosa nella letteratura scientifica che assomigli a questa immagine”. Era incerto fra toxoplasmosi e candida. Alle 3 del mattino, stremato, concluse: “Per me è candida”. Decise di iniettare in vena il fungizone, un veleno. La temperatura salì a 43 gradi. Nonostante il febbrone, Mauro tremava dal freddo. Ci vollero tre, cinque, dieci coperte. In questo modo il professore ci regalò nostro figlio per altri otto anni».

Mauro si rendeva conto del suo stato?

«Eccome. Voleva che i medici sperimentassero le cure su di lui, che trovassero un rimedio per i coetanei. Si sentiva un esploratore, non un cavia. Ogni due mesi era sottoposto a un’ispezione della mucosa gastrica. Mentre seguiva la sonda sul monitor, stringeva il braccio del ricercatore come per dirgli: “Preleva lì”».

A scuola come andava?

«Bene, nonostante lo considerassero un extraterrestre e fosse costretto ad assenze anche di tre mesi. Intelligente, pieno di curiosità, era il saggio della famiglia, l’ago della bilancia fra le sorelle».

Avevate messo in conto di poterlo perdere?

«Non volevamo pensarci. C’era la speranza che saltasse fuori una cura. Un giorno Mauro ci disse: “Sono stanco”».

Come giunse la fine?

«Polmonite interstiziale. La candida colonizzò i polmoni. I medici ci lasciavano seguirlo in rianimazione, chiedevano consiglio a noi su che cosa fare. Fu intubato. Entrò in coma e non si svegliò più».

Da allora quanti casi di Apeced ha visto?

«Sette o otto, comprese tre sorelle di Bassano del Grappa, due delle quali poi decedute».

Vi arrivano molte richieste di aiuto?

«Se rimango in sede fino alle 10 di sera, mi capita di ricevere telefonate anche a quell’ora. Le famiglie sono vittime di un’emarginazione terrificante, hanno un bisogno disperato di parlare. I medici, non trovando le cure, dopo un po’ si disaffezionano ai drammi di questi pazienti. Eppure le malattie rare rappresentano un laboratorio naturale straordinario anche per le altre patologie. Quando il professor William Nyhan, che con Michael Lesch ha dato il nome alla sindrome di Lesch-Nyhan, venne qui nel 1996, ci disse: “Voi non vi rendete nemmeno conto di che cosa state facendo. È la prima volta che mi capita di vedere radunati 13 malati di Lesch-Nyhan”. Lui, il massimo esperto mondiale. Per la Lesch-Nyhan abbiamo pubblicato gli studi in vitro della proteina, ma non c’è ancora una terapia definitiva».

Quanti sono colpiti in Italia?

«Noi ne conosciamo 29. È una sindrome legata al cromosoma X, che ha il 50 per cento di probabilità d’essere trasmessa dalla madre al figlio maschio. La mancanza di un enzima induce autoaggressività in chi ne è colpito. Al malato, costretto in carrozzella, bisogna applicare speciali tutori per bloccargli le mani, altrimenti si mangerebbe le dita. Ciò nonostante capita che si porti via a morsi pezzi di labbra o mezza lingua, per cui spesso è necessario estirpargli tutti i denti. Mai lasciare questi soggetti vicino al muro o al termosifone: ci picchierebbero contro la testa. Il loro istinto primario è ferirsi. Ma sono ragazzi intuitivi. Michelino ha scagliato lontano da sé un tirannosauro di gomma che gli avevano regalato, gridando: “Naian!”, cioè Nyhan: la dentatura del rettile gli ricordava la propria malattia».

Però avete conseguito molti successi su altri fronti.

«La leucodistrofia metacromatica ora si cura con la terapia genica, iniziata grazie alla nostra determinata volontà e finanziata per più di 10 anni al San Raffaele di Milano. Poi Telethon e alcune industrie farmaceutiche hanno completato questo strepitoso progetto. La primogenitura ci è stata riconosciuta dai professori Alessandro Aiuti e Luigi Naldini nel libro La cura inaspettata. La grande sfida che ora stiamo affrontando è la terapia genica della malattia di Lafora. Abbiamo accolto l’appello di una mamma, un’avvocata di Perugia, che ha il figlio affetto da questo morbo, e abbiamo bandito l’undicesima edizione del nostro premio internazionale di terapia genica per un importo di 150.000 euro, assegnato al gruppo di ricerca madrileno del professor José María Serratosa Fernández, in collaborazione con la professoressa Cinzia Costa di Perugia. Inoltre il nostro team sta studiando due rare malattie in ambito oncologico : la fibromatosi desmoide e il nevo melanocitico congenito gigante».

Mai sentite nominare.

«La fibromatosi desmoide è una rara forma che colpisce soprattutto le donne in età fertile, con neoplasie fibromuscolari e riduzione della motilità articolare , fragilità delle ossa, possibili lesioni intraddominali. Nel Veneto ci sono persone affette da questa forma che hanno subìto molti interventi chirurgici, in un caso anche più di 50, o l’amputazione di una gamba. Il progetto è in collaborazione con l’Unità sarcomi e melanomi dell’Istituto oncologico veneto di Padova ed è stato finanziato per tre volte dalla fondazione americana per la ricerca sul tumore desmoide. Il nevo melanocitico congenito gigante è una lesione dei melanociti. Si sviluppa nel primo trimestre di gestazione e alla nascita può raggiungere dimensioni oltre 20 centimetri. I nevi melanocitici giganti si presentano come una lesione marrone, con superficie piatta, ruvida, sollevata, ispessita. A volte copre quasi tutto il corpo come un nero mantello e non ci sono al momento terapie risolutive al di fuori di interventi chirurgici continui e dolorosi, sostituendo pezzi di cute malata con pelle sana espansa. Una bimba vicentina di 10 anni è già stata operata 10 volte».

Altri progressi?

«Attualmente presso il nostro laboratorio vengono effettuati esami genetici per 230 malattie. In particolare per le malattie neurodegenerative sono stati introdotti in laboratorio nuovi protocolli diagnostici con sequenziamento per patologie neurodegenerative di origine genetica: Parkinson, Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica, demenza frontotemporale, malformazione cavernosa cerebrale, paraplegia spastica, ipertermia maligna».

Vede molte guarigioni nei portatori di malattie rare?

«I miracoli noi non li facciamo. Dovrebbero farli i medici. C’è gente che viene qui con una diagnosi e se ne riparte con un’altra. A una madre separata di Rimini avevano tolto la patria potestà in seguito alle ferite riscontrate sul figlio. Il bimbo era stato messo in affido. Lei protestava disperata la sua innocenza, ma nessuno voleva credere alla storia delle automutilazioni. È stata un’insegnante di sostegno a intuire che quelle lesioni potevano essere causate dalla Lesch-Nyhan. E quantunque il dirigente scolastico le avesse intimato di non immischiarsi nella faccenda, la maestra ha consigliato alla madre di venire da noi. Quando la donna ha visto altri bambini affetti dalla stessa sindrome di suo figlio, è scoppiata a piangere».

Conforto nella tragedia.

«Un’altra mamma aveva perso due gemellini di 3 anni per la sindrome di Farber, che si manifesta con noduli alle mani e poi si espande a tutto il sistema nervoso. Dopo aver adottato un bimbo, è rimasta nuovamente incinta. L’unico consiglio che le davano i medici era di abortire. Invece noi l’abbiamo affidata al professor Luigi Notarangelo, specialista bresciano del trapianto di midollo in utero. E così è nato Pietro, un bellissimo bambino, non segnato della sindrome. Fin qui ci siamo arrivati».

Siete bravi.

«Siamo tenaci. Quando nel 1992 lanciammo il primo concorso internazionale sulla genetica della malattia autoimmune, il premio Nobel Renato Dulbecco mi dissuase: “Baschirotto, correte troppo! Nessuno al mondo è in grado di scrivere un progetto di terapia genica delle malattie autoimmuni”. Ne sono arrivati 13».

Che cosa pensa dell’utilizzo degli embrioni per eventuali terapie?

«Se gli embrioni potessero parlare e mettersi a disposizione dell’umanità come cavie, allora lo farei. Ma parlare non possono».

Come sono assistite dallo Stato le persone che soffrono di patologie infrequenti?

«Non sono assistite. Questi malati non esistono, non vengono nemmeno considerati malati. Sono soltanto un peso. Facciamo il caso dello xeroderma pigmentoso, che colpisce una persona ogni 250.000. Viene chiamata la malattia dei “bambini della luna”, giacché per loro la vita è come un’unica, lunghissima notte. Daniela Frieri, una mamma della provincia di Pisa, ebbe i primi sintomi a 10 anni. Ogni volta che prendeva un po’ di sole, si riempiva di eritemi. Non sopporta la luce e le sue cellule non sono in grado di riparare i danni arrecati dai raggi ultravioletti. Non ha mai visto il mare, non è mai andata in montagna. I vetri della sua casa e della sua auto sono schermati. Quando deve uscire di giorno, porta una maschera sul volto. Finora ha subìto una cinquantina di interventi chirurgici per riparare i danni al viso e alla pelle».

Non ci sono cure per le malattie rare?

«Mai sentito parlare dei “farmaci orfani”? Questi pazienti non esistono neppure per l’industria farmaceutica. Per sviluppare un nuovo medicinale servono non meno di 800 milioni di euro d’investimento e da 10 a 15 anni di ricerche. Brevettare farmaci per la cura di poche persone non è economicamente conveniente. I medici preferiscono smontare e cambiare i pezzi del corpo umano. A Leonardo Cioce, un giovane di Bari, hanno trapiantato fegato, pancreas, intestino, stomaco e rene per cercare di renderlo immune dalla sindrome di Gardner. In futuro i pazienti come lui saranno sottoposti solo a terapia genica, non c’è alcun dubbio su questo».

È giusto che il portatore di un morbo raro metta al mondo dei figli a rischio?

«Sono scelte personali. Io sono contrario all’aborto. Come padre di Mauro, una cosa posso dirla con certezza: chi ha avuto un figlio così, è maturato di più».

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