Diego Dalla Palma: «Mi tolgo dalla vecchiaia, accadrà sull’Atlantico, avrò accanto le ceneri dei miei»

Il re del make-up: «Cambio le mutande due volte al giorno, voglio conservare la dignità». La sua Milano: «Non sapevo dove lavarmi, mi prostituii in cambio di un panino. La povertà è stata la mia università»

Stefano LorenzettoStefano Lorenzetto
Diego Dalla Palma, 75 anni, definito dal New York Times «il profeta del make-up italiano». Abita a Padova

Aveva già trovato il posto, una grotta che strapiomba su un burrone, fra i monti di Enego, nel Vicentino. «Non è lontana da Malga Lambara, dove sono nato. Con mio padre ci riparavamo lì dentro quando scoppiava un temporale durante la conta delle vacche, oppure mentre si andava a vipere», racconta Diego Dalla Palma. Eh sì, sull’altopiano dei Sette Comuni catturavano il serpente velenoso, lo infilavano in una bottiglia e lo affogavano nell’acquavite per ottenerne il più assurdo dei distillati, «mio cugino Vittorio era uno specialista nella graspa alla vipera, e non fu mai morsicato, morì invece di rabbia silvestre a 40 anni dopo essere stato azzannato da una volpe che allevava in cantina».

E’  in quella grotta che Dalla Palma, 75 anni, visagista di fama mondiale, imprenditore, costumista, scenografo, scrittore – «io mi definisco solo studioso di bellezza, l’ho indagata per tutta la vita e non ho ancora capito che cosa sia» – aveva progettato di rifugiarsi a morire, nel giorno e nel modo che solo lui deciderà. «Ma poi, in Africa, ne ho trovata un’altra di grotta, affacciata sull’Atlantico, e ho esclamato: qui!».

Qui, anzi là, finirà la vita dell’eclettico «profeta del make-up italiano», come lo definì il New York Times, «però non subito, fra qualche anno, questo non lo ha compreso nessuno», si lamenta dopo il clamore seguito all’uscita del suo libro Alfabeto emotivo. In viaggio con la vita (Baldini+Castoldi) e all’apparizione su Facebook e Instagram di cinque lucidissimi reel con cui ha annunciato l’addio ai 316.000 follower: «Non sarò più rintracciabile, sparirò per tutti».

Da sette anni Dalla Palma abita nel Padovano, prima in una villa di Selvazzano, attorniata da un parco popolato da scoiattoli e fagiani, adesso in un elegante appartamento vicino al teatro Verdi, in pieno centro.

Guai a parlargli di morte.

«Sarà una vacanza straordinaria, come quelle che feci arrampicandomi sul Machu Picchu in Perù, andando a vedere in Sudafrica i due oceani che si abbracciano al Capo di Buona Speranza, arrivando con la luna piena alle cascate dell’Iguazú in Brasile. Non mi tolgo dal mondo: mi tolgo dalla vecchiaia».

Per farlo dovrà suicidarsi.

«Ma perché tutti hanno una visione così tetra, così triste, così spettrale della morte? Voglio semplicemente conservare la mia dignità di uomo».

Quella che Indro Montanelli faceva coincidere con la sua possibilità di potersi recare in bagno da solo?

«Quella. Io mi cambio le mutande due volte al giorno, la prego di scriverlo. Non perché mi pisci addosso. Ma basta una goccia, no? Voglio essere pulito e profumato, mi sforzo di stare dritto. E quando non potrò più farlo?».

«Dedico questi miei pensieri alla morte, che avendo avuto fede in me mi ha concesso una vita straordinaria», scrive nel libro. L’ha mai vista in faccia?

«Sì, almeno due volte. La prima a 6 anni, quando fui colpito dalla meningite linfocitaria. Nel coma non trovai alcun tunnel, solo una luce lillà, fortissima, che mi dava un senso di trasparenza e di ristoro. Mia madre restò accanto a me in ospedale per molti giorni, con un’immagine di sant’Antonio stretta al petto. “Al risveglio eri contrariato”, mi raccontò. Mi mancava il lillà. I miei non potevano permettersi di regalarmi dei pastelli per lo scampato pericolo. Disegnavo a matita sulla carta che usavano in malga per avvolgere il burro. Con i cocci dei mattoni rossi dipingevo bocche sui muri della porcilaia. È così che ho scoperto il maquillage».

E la seconda volta?

«Una ventina d’anni fa. Abitavo a Milano. Una persona, con cui intrattenevo una relazione, mi piombò in casa, mi massacrò di botte e mi tagliò la gola. Credendomi morto, rubò orologi e denaro. E fuggì. Non so come, riuscii a scendere in strada. Tutto insanguinato, chiedevo soldi ai passanti. Straparlavo. Emilio Radrizzani, droghiere di viale Piave, mi allungò 500 euro. Non ero in me. L’avvocata Annamaria Bernardini de Pace mi portò a casa sua e mi curò. Seguì un mese d’ospedale all’estero per lesioni a un polmone, a un timpano e a un testicolo. Mi salvarono alcuni medici cubani miei amici».

E l’aggressore?

«Fu catturato. Originario di Capo Verde. Si scoprì che s’era già fatto 14 anni di galera per aver ridotto in sedia a rotelle una nobildonna durante una rapina».

Forse ha bisogno del Prozac.

«Non so che cosa sia. Mi rifiuto di precipitare nell’orrenda situazione che ho vissuto con mia madre, fatta di depressione e attacchi di panico, un dramma continuo sia per me sia per mio padre».

Allora forse le serve una cura spirituale.

«C’è un dolore, un male dell’anima, di cui neanche ti rendi conto ma che è nel profondo del cuore. Sono andato da uno psicanalista, tempo fa. Mi ha detto: “Signor Dalla Palma, è passato troppo tempo per poter rimediare. Nella sua mente l’ingombro di ciò che lei ha subìto da ragazzo non si può rimuovere. È già fortunatissimo ad avere questa cognizione”».

Dalla Palma con la madre Agnese. «Era una marescialla», dice di lei
Dalla Palma con la madre Agnese. «Era una marescialla», dice di lei

Mi parli della sua infanzia.

«Quando nacqui, a Enego su 4.500 abitanti solo due donne usavano il rossetto. Una era mia madre Agnese. L’altra era la sua amica più cara. Il giorno in cui fu eletto papa Giovanni XXIII, il marito geloso la decapitò con l’accetta ed esibì la testa mozzata alla finestra. Mia mamma fece uscire di casa il pazzo, avvolto in una coperta. Da quel giorno il mal di vita s’impossessò di lei, non fu più la stessa. A Enego ho sofferto troppo».

Di preciso che le accadde?

«I compagni mi deridevano: “Femminuccia”. A distanza di anni, temevano che li contagiassi con il meningococco. Quanto male fa l’ignoranza! Da Malga Lambara scendevo a scuola sul camion del latte. La mamma mi ripeteva sempre: “Te devi ’ndar via! No star qua fra le vache, come mì”. Nel 1968 mi mise in mano 25.000 lire: “Ghemo solo questi, te i dago, ma no tornar indrìo!”. Avevo 18 anni, quando me ne andai. “Ricòrdate che sémo gente povera, no povera gente”, fu il congedo di mio padre Ottavio».

Arrivò a Milano.

«Fu lo spaesamento totale. Non sapevo dove lavarmi, dove dormire. Finii nel pensionato Belloni di viale Fulvio Testi. Per vicini di letto i barboni ubriachi che scoreggiavano. Una fame spaventosa. Arrivai a prostituirmi in cambio di un panino. La mia università è stata la povertà».

Alla fine trovò due lavori.

«Costumista e scenografo. Un Natale mi presentai per la terza volta alla sede Rai in corso Sempione. Maud Strudthoff mi batté una mano sulla spalla: “De Palma, torna a casa”. Manco si ricordava il mio cognome. L’ascensore era rotto, vagai nei corridoi. Lei mi rivide e s’impietosì: “Vabbè, ti provo in Un’ora per voi, condotto da Corrado e Mascia Cantoni per i nostri emigrati in Svizzera. Solo tre puntate”. Divennero 30. Da Guido Stagnaro a Enzo Trapani, per 10 anni lavorai con tutti i registi».

 

Dalla Palma con l’attrice Barbara De Rossi
Dalla Palma con l’attrice Barbara De Rossi

Poi si prese cura dei volti di attrici e cantanti.

«Tutte le donne mi chiedevano sempre una sola cosa: “Fammi apparire giovane”».

Oggi ricorrono al bisturi.

«Odio la chirurgia estetica. Guardi le facce di Madonna, Mickey Rourke, Linda Evangelista, Sylvester Stallone. E Faye Dunaway? Non esce più di casa, le hanno stravolto l’articolazione labiale».

Combinare il fard con il rimmel divenne la sua arte.

«Ornella Vanoni, Mariangela Melato, Patty Pravo mi affidarono il loro viso. Ero rapito da Amália Rodrigues, aveva negli occhi stregoneria e santità. M’incantavano Lea Massari e Maria Tanase, la Édith Piaf dei Balcani, due amori di Indro Montanelli».

Quando conduceva Come si cambia, su Rete 4, ritoccò persino Silvio Berlusconi.

«Voleva che gli sfumassi la base del naso. “Ce l’ho troppo prominente, come mio padre Luigi”, si lamentava».

Per il fondotinta il Cavaliere si arrangiava da solo.

«Era la telecamera il suo fondotinta, anzi il cerone. Tira fuori il peggio della nostra vanità».

Dalla Palma oggi è un brand del settore cosmetico.

«Nel 1978 aprii il Make up studio in zona Brera. Con la stufetta elettrica colavo barattoli di rossetto verde, blu, nero e ne facevo stick. Ma la più abile fu mia mamma. Venne a trovarmi. In dialetto veneto conquistò una cliente, che uscì felice dopo aver pagato 34.000 lire un rossetto che ne costava 12.000».

Il rapporto con sua madre mi ricorda quello che legava Pier Paolo Pasolini alla propria, Susanna Colussi.

«U-gua-le! Non ebbi il coraggio di parlarne con il regista. Lo conobbi a Venezia, nella mansarda di Tiziano Rizzo, traduttore di talento, vicino a Rialto. C’era anche Toni Pezzato, giornalista del Gazzettino. Pasolini fece interpretare a sua madre la Madonna sotto la croce nel Vangelo secondo Matteo, io la truccavo per portarla al ristorante. Finito il make-up, le dicevo: te me par ’na vecia putana. Ma lei si offendeva solo per l’aggettivo: “Eh no, vecia no!”».

Il piccolo Diego fra i genitori Agnese e Ottavio a Malga Lambara
Il piccolo Diego fra i genitori Agnese e Ottavio a Malga Lambara

Ha confessato al Corriere della Sera la sensazione che i suoi genitori avessero provato esperienze omosessuali. Da che cosa lo deduce?

«Mio padre era un marcantonio, ma con una sensibilità e una dolcezza femminili, capocuoco del battaglione sul fronte greco-albanese, in tempi in cui spignattare veniva considerata una faccenda da donne. Mia madre era una Silvana Mangano con il piglio da marescialla. Se vedeva apparire in tv Ornella Vanoni, mollava l’arrosto e stava ore ad ammirarla estasiata. Sospirava: “Cossa che trasmete ’sta fémena!”. Lo stesso quando la portavo a spasso per Milano e vedeva una bella donna: “Che fémena strana!”. Mio padre era remissivo, mia madre una comandante».

È uno schema familiare che ricorre nelle storie di molti omosessuali.

«Era la Agnese l’elemento maschile in cui mi rifugiavo, non l’Ottavio. Mia madre e io non eravamo d’accordo su nulla. Il nostro è stato un violento nubifragio d’amore. Si è sempre sentita una mamma in prestito, non mi ha mai accarezzato. La bellezza non si può separare dal dolore. Come scrisse Paul Valéry, definire il bello è facile: è ciò che fa disperare».

Una volta lei dichiarò di essere pansessuale.

«Sono nato in una casa priva di infissi. Non ho porte, non ho confini. Ho avuto le prime esperienze sessuali da ragazzino, quando andavo nei fienili a masturbarmi con i giovanotti che d’estate venivano ad aiutarci a Malga Lambara. Dei due grandi amori della mia vita, Anna e Mario, preferisco ricordare Anna. Studiava alla Scala per diventare soprano. Mi ha donato equilibrio. Il sesso era il primo pensiero la mattina e l’ultimo la sera. Oggi osservo sgomento il mio corpo plissé e mi astengo».

Da quindicenne subì abusi quasi tutti i giorni, per due anni, al collegio Cavanis di Venezia. Pensa che abbiano influito sul suo orientamento sessuale?

«No, no, no. Non fu un’iniziazione. Solo costrizione, umiliazione. Dormivo nell’ala degli sfigati, le cui famiglie non erano in grado di pagare la retta. Padre Ugo pesava 120 chili. Fu suadente: “Dammi del tu”. Dapprima fu una violenza mentale, sulle note della Sinfonia n. 103 di Haydn. Conservo ancora tre pile di vinili che mi regalò».

Divenne omosessuale in questo modo?

«No. C’era già l’inclinazione, in percentuali che non capivo, a seconda delle occasioni. Anni fa la mia segretaria mi passò al telefono un uomo asmatico. Era padre Ugo. Biascicò: “Stavolta benedicimi tu, sto morendo. Mi vuoi bene, Diego?”».

E lei in che modo reagì?

«Non conosco il rancore. Ci pensai un minuto e poi risposi: sì, le voglio bene. Che cosa mi cambiava perdonarlo? “Grazie, figliolo”, rispose sollevato».

Nel suo libro confessa: «Sono una persona piena di tormenti, di contrasti, di luci e ombre. Un uomo che vive in compagnia di angeli e diavoli». Non crede che sia lo stesso per tutto il genere umano?

«Io penso che faccia parte della mia natura artistica. Il tormento che mi perseguita è quello di non sentirmi mai all’altezza, mai. Una cosa orrenda. Il demone che mi ha segnato la vita è stato il sesso spiccio».

Vivendo a Padova, conoscerà l’europarlamentare Alessandro Zan, esponente della comunità Lgbt.

«No, mai incontrato».

Sfilerebbe al Gay pride?

«Certo, ma cercherei di andarci evitando qualsiasi esibizionismo. Io non vorrei mai ostentare un’omosessualità folcloristica».

In Alfabeto emotivo ammette: «Ho compiuto un’infinità di errori». Il peggiore?

«Non aver ascoltato le vicende di guerra che raccontava mio padre, per esempio l’episodio di lui che in Valsugana si butta giù dal treno che lo stava deportando a Dachau. La marescialla lo interrompeva sempre: “Basta, l’emo za sentìa ’sta storia!”».

Una persona non programma la propria dipartita mettendo in scena a teatro la piéce Perché no?, che da febbraio ad aprile del 2026 è in cartellone a Roma, Montecchio Maggiore, Trecate, Torino, Gorizia, Milano, Asiago e Bologna. Qualcuno sospetterà che sia una strategia pubblicitaria.

«Mi è stato già rinfacciato sui social, si figuri. Ignorano che il teatro non paga, che è difficilissimo riempirlo. Ho bisogno di stare accanto alle persone, cerco il loro sguardo, mi risarciscono delle carezze che non ho avuto e del bullismo à gogo che ho patito. Vorrei solo far capire una cosa: la morte non è niente di che».

Anni Settanta: Diego Dalla Palma nella baia di New York. Sullo sfondo, a destra, le Torri gemelle
Anni Settanta: Diego Dalla Palma nella baia di New York. Sullo sfondo, a destra, le Torri gemelle

Una foto degli anni Settanta la ritrae nella baia di New York, con la fronte che pare sfiorare le Torri gemelle sullo sfondo. Era proprio nel suo orizzonte, la morte.

«Lei solo l’ha notato! Mi vengono i brividi. Non resta più nulla di quel giovane pazzo che arrivò nella Grande Mela senza sapere una parola d’inglese, ricco unicamente di sogni, aspettative, ambizioni, ma immune dall’arrivismo, perché ai soldi non ho mai dato importanza. Le Twin Towers parevano fatte per restare lì in eterno, invece... Fra non molto scomparirà per sempre anche quel ragazzotto riccioluto».

È proprio un chiodo fisso.

«Ma no, ho persino affittato una casa a Catania, me la daranno a gennaio, ci passerò gli inverni. Mariangela Melato mi diceva: “L’imperfezione ti farà vivere, invecchiare e morire meglio. Perché è una fonte di stimolo”».

Che cosa c’entra Catania con l’imperfezione?

«È la città è più imperfetta d’Italia. Una delle più disgraziate e una delle più belle. Al pari della mia amatissima Trieste, e di Asolo, e di Feltre, e di Marcesina, Lambara e Foza, i luoghi della mia infanzia, e degli Alberoni a Venezia, che trasformano il respiro in spiritualità. E di Lisbona, dove ho un piccolo buen retiro sopra l’appartamento della mia amica Angélica Rosado, Miss Portogallo 1989, donna stupenda che lavorò per me come modella».

Dove ha sepolto i genitori?

«Sono con me, nella stanza qui accanto. Quando verrà il momento, avrò al mio fianco le urne con le loro ceneri. Staremo insieme per sempre».

Dove?

«Diaw Vabou, il mio domestico senegalese, al suo Paese ha una casa sull’oceano. Andrò a morire lì, dove non c’è bisogno di raccogliere nulla. Gli animali provvederanno a tutto. Un amico medico mi ha preparato un cocktail di farmaci. Farò tutto da solo. Mi aiuterò con l’alcol».

Grappa?

«No, voglio tornare al cognac per ricordare il primo rapporto completo con una donna».

Giuseppina, che da Padova saliva d’estate a Enego?

«Con lei andavo per ciclamini, ci fu solo qualche toccamento. Parlo dell’amante di via Soldati a Milano, ultimo piano, posticino romantico, vicino al Cimitero monumentale. Gli anziani del mio paese mi avevano terrorizzato: “Co le done te ciapi la sifilide, coi omeni te mori”. Allora per farmi coraggio trangugiai un’intera bottiglia di Martell. Di solito toglie le forze, invece ero lucidissimo. “Uno fantasioso come te non lo avevo mai incontrato”, si complimentò. Magari sarò così anche l’ultimo giorno».

MARSILIO EDITORI

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