“Le farfalle della Giudecca”: le detenute si raccontano in un docufilm tra dolore, speranza e voglia di rinascita

Tra sbarre e aule di scuola, il documentario di Rosa Lina Galantino e Luigi Giuliano Ceccarelli, con Ottavia Piccolo, ripercorre le vite delle detenute del carcere veneziano partendo dalla visita di papa Francesco. Donne che affrontano la solitudine e gli errori del passato pronte a trasformarsi e volare oltre le barriere

Maria Ducoli
Ottavia Piccolo al centro con la direttrice Maurizia Campobasso e i registi Rosa Lina Galantino e Luigi Giuliano Ceccarelli

Inizia con il rombo di un elicottero, il documentario “Le farfalle della Giudecca”, di Rosa Lina Galantino e Luigi Giuliano Ceccarelli, con la partecipazione di Ottavia Piccolo.

Da quell’elicottero, il 29 aprile del 2024 scese papa Francesco, che incontrò le detenute. Sono loro, le farfalle della Giudecca: creature in via di trasformazione, alcune imprigionate nel bozzolo del proprio dolore, in condizioni di partenza sfavorevoli, che le hanno portate su strade sbagliate. Altre sono pronte a liberarsi in volo, una volta superate le sbarre.

A rendere possibile la trasformazione da bruchi a farfalle, i tanti progetti in corso, il lavoro spesso difficilissimo delle agenti di polizia penitenziaria, degli educatori e delle associazioni di volontariato.

«Il documentario racconta proprio questo, la vita quotidiana del carcere, in modo da superare i preconcetti e far sì che queste persone non restino invisibili», spiega Ceccarelli. Nei 65 minuti di proiezione, le protagoniste sono le donne, detenute e lavoratrici della casa di reclusione. E il carcere, «casa delle cento solitudini che si incontrano e scontrano», come recita Piccolo, trova finalmente voce.

Il carcere come avamposto della battaglia delle donne

Si chiama fondamenta delle Convertite, quella in cui sorge il carcere femminile della Giudecca a Venezia perché nel 1.500 accoglieva le prostitute. Entravano, solitamente contro la propria volontà, e non uscivano più.

Torna, allora, nel documentario il concetto dell’«essere peccatrice femmina», come spiega Piccolo in video, «e quindi il carcere diventa un avamposto della battaglia delle donne per la loro emancipazione e per scardinare quei preconcetti maschilisti che le hanno portate qui».

Ottavia Piccolo durante le riprese del docufilm alla Giudecca

Donne che, spesso, sono state ragazze e bambine cresciute ai margini, in equilibrio sui bordi di una società che probabilmente non è stata in grado di vederle e aiutarle, di far germogliare in loro degli strumenti per poter essere in grado di scegliere una strada che non conducesse al reato.

Arrivano alla Giudecca con alle spalle un vissuto complesso, fatto di droghe e violenza maschile e in carcere non solo “pagano” i loro errori, no, si emancipano. Grazie alla scuola, per molte sconosciuta, e ai percorsi di inserimento lavorativo trovano una loro strada per ripartire, una volta fuori. Dopo essersi perse o forse mai conosciute, si ritrovano. Lasciano i margini per andare al centro, accompagnate dalla dedizione di altre donne.

Le aule della libertà

Una lavagna in ghisa, i banchi uno vicino all’altro, quaderni e penne: la scuola del carcere è innanzitutto una scuola di libertà, che passa dal saper leggere, scrivere, contare. Per molte detenute, è la prima aula che frequentano.

«Ho imparato a leggere all’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri, ndr), per poter sfogliare i libri con mio figlio Raoul», racconta Sabrina.

Grazie all’impegno delle due insegnanti, Eliana e Daria, le donne della Giudecca non acquisiscono solo nozioni e concetti, ma una vera e propria grammatica sentimentale per potersi raccontare. «Oggi mi sento un po’ strana, forse mi manca un po’ casa. Le sbarre mi frenano, mi soffocano».

Veronica mette in versi la propria angoscia, per poi condividerla ad alta

voce davanti alla telecamera.

Anna scrive una lettera all’eroina: «Trasformi i nostri caratteri, non ci rendiamo conto ma diventiamo irriconoscibili».

Il lavoro come antidoto ai pensieri

La missione rieducativa del carcere si persegue tramite i tanti progetti di inserimento lavorativo in collaborazione con le varie realtà del territorio, dalle cooperative Il cerchio e Rio Terà dei Pensieri a grandi realtà come l’Hilton Molino Stucky e la Biennale.

«Il lavoro è dignità», commenta Monia, che poco dopo la registrazione del documentario sarebbe uscita, «è fondamentale trarre qualcosa di buono da questa esperienza».

Faith produce candele e racconta che «venire in laboratorio significa uscire dal carcere», anche se il locale in cui avviene la lavorazione è all’interno, ma la detenzione pesa meno quando hai mani e testa impegnate. Lo conferma anche Ylinka, arrivata dall’Europa dell’Est. «In stanza vengo presa da troppi pensieri, lavorare aiuta».

Le riprese del docufilm "Le farfalle"

Mamme senza bambini e figlie senza madri

«I miei figli sono le cose più belle che ho fatto nella vita». Una frase che torna spesso, che più detenute ripetono davanti alla telecamera, con gli occhi lucidi. Raccontano di pensare ogni giorno ai loro bambini, molti lasciati nel paese d’origine, affidati alle cure della famiglia, altri in carico ai servizi sociali, accuditi da genitori affidatari o adottivi.

Sabrina ha tenuto con sé il proprio figlio in Icam per due mesi, poi ha scelto di separarsene, affidandolo al mondo fuori: «E’ giusto così, ho sbagliato io, non lui. Non deve pagare per me, un bambino non deve crescere tra le sbarre». Un’agente spiega che «in qualità di donne e mamme dobbiamo imparare a leggere i loro silenzi, studiare le reazioni alle telefonate. Le detenute lasciano i loro figli, è un’esperienza forte».

Il docufilm delle carcerate: farfalle in cerca di una nuova libertà

Alcune, però, sono così giovani da essere ancora più sperdute delle altre e sentono la mancanza di una figura materna, di una guida che possa indirizzarle. Allora si affidano alle più anziane, che nel carcere sono da più tempo e hanno più strumenti per affrontarlo. Come Anna, “senatrice” della casa di reclusione: «Molte vengono da me a chiedermi consigli, io dico sempre loro di comportarsi bene. Sì, abbiamo sbagliato, ma stiamo pagando».

Donne che governano altre donne

In gergo, si chiama “carcerite” e, spiega Valentina, agente di polizia penitenziaria, non è solo lo stress psicologico dettato dal lavorare in un contesto particolare, ma anche la passione verso quello stesso contesto, che ribolle di umanità.

«Mi sono innamorata di questo lavoro e quando sono fuori, mi manca la divisa», racconta.

La comandante della polizia penitenziaria, Lara Boco, compare in più frame del documentario: una presenza costante a fianco delle donne ristrette e delle agenti. «Ci sono ancora tanti, troppi luoghi comuni sul carcere», premette, «le detenute a volte hanno solo bisogno di essere ascoltate, e noi ci siamo sempre».

Donne che ascoltano altre donne, che le governano, perché la routine di una struttura detentiva è rigida e le regole ferree. La colazione è alle 7, il pranzo alle 12, la cena alle 19. Due ore d’aria, che aumentano in estate. Alle 20 le porte delle camere si chiudono fino alla mattina dopo. Sei le telefonate al mese e le sigarette diventano una sorta di moneta corrente con cui si baratta tutto.

Banditi il vetro e altri oggetti con cui le detenute potrebbero farsi male, i nomi delle agenti dovrebbero restare sconosciuti, tant’è che tra di loro si chiamano solo “collega”, ma poi quelli delle più alte in grado si sanno, dopo anni di contatto quotidiano.

Verso la libertà

Maurizia Campobasso, neo direttrice della casa di reclusione femminile, si rivolge alle detenute che hanno assistito alla proiezione del documentario: «Non dovete mai perdere la speranza, che è la consapevolezza e la certezza che quello che facciamo qui ha un senso, indipendentemente da come andrà a finire. L’attenzione verso se stessi è un gesto di generosità: possiamo amare gli altri solo se prima ci amiamo».

Ecco, allora, la missione rieducativa del carcere, che insegna alle donne che solo amandosi si può essere libere da ogni sbarra. «Abbiate sempre la sensazione», prosegue la regista Rosa Lina Galantino «che il passaggio da qui non sia un marchio per la vita, ma un aiuto per ricostruirla».

Il documentario si chiude con una detenuta che s’incammina per la propria strada, trascinando dietro di sé un trolley grigio. Una domanda sorge spontanea: e se fosse il mondo fuori ad aver bisogno di essere riabilitato?

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