Quando le donne hanno preso la scena: ascesa di un nuovo sguardo nel cinema
Dalle muse passive di Hitchcock e dai ruoli marginali in Kubrick al successo globale di Zhao, Ducournau, Gerwig e Cortellesi: un viaggio nella rivoluzione silenziosa che ha riscritto i codici del cinema. Un cambiamento che tocca anche il Nordest

“True detective” è la serie televisiva che nella contemporaneità ha portato il cinema dentro al piccolo schermo, imponendosi come un film lungo otto ore, per la trama orizzontale, per la qualità autoriale della regia, per l’impostazione filosofica delle interpretazioni.
Al centro ci sono due detective chiamati a risolvere un caso, e nella prima serie del 2014 erano interpretati da Mattew McConaughey e Woody Harrelson, due uomini bianchi; nella seconda serie del 2015 da Collin Farrel e Rachel McAdams, un uomo e una donna bianchi; nella terza del 2019 da Mahershala Ali e Carmen Ejogo, un uomo e una donna di colore; e nella quarta e ultima del 2024, da Jodie Foster e Kali Reis, due donne, una bianca e una di colore. L’evoluzione dei personaggi di “True detective”, incarnati dai loro interpreti, può essere l’esempio più rapido e cristallino dell’evoluzione della presenza e del ruolo delle donne nel cinema, sviluppatosi con potenza negli ultimi dieci anni, con un impennata straordinaria dal post pandemia. Personaggi a tutto tondo sia nell’essere che nell’agire, carismatici, determinati, potenti a livello visivo ma anche emotivo, spesso raccontati da un’interessante fioritura di registe, che hanno conquistato schermi e premi in tutto il mondo.
Nel passato
Non che nella storia del cinema non si trovino esempi di donne volitive, coraggiose, autonome, eroine sul grande e piccolo schermo, dalla Rossella O’Hara di “Via col vento” (Oscar a Vivien Leigh nel 1940), alla “Signora in giallo” , da “Erin Brockovich” (Oscar a Julia Roberts nel 2001) alla Sposa di “Kill Bill” (peraltro tutte single, come se le proprie qualità impedissero loro di avere un rapporto di coppia, o ancor peggio come se potessero realizzarsi solo in assenza di un partner), ma si tratta, in termini generali, di una presenza certamente secondaria, sia in ordine quantitativo che qualitativo.

Il Novecento della settima arte ritrae infatti la donna per lo più come oggetto del desiderio maschile, femme fatale, angelo del focolare o peccaminosa prostituta, con attrici scelte primariamente per le proprie doti estetiche (sono arcinoti i rifiuti che ebbe Meryl Streep ad inizio carriera perché non abbastanza bella per Hollywood).
Hitchcock e Kubrick
Nel mainstream autoriale citiamo, a titolo di esempio, due grandissimi registi: Alfred Hitchcock e Stanley Kubrick. Il primo amava i personaggi femminili, trasformando le dive in icone, da Grace Kelly a Kim Novak, da Ingrid Bergman a Tippi Hedren, ma tutte le sue donne avevano un unico e solo movente d’azione: l’amore. Lo troviamo agli esordi con “Giovane e innocente” (1937) in cui la protagonista indaga per discolpare il suo innamorato, e ce lo portiamo dietro nel bellissimo “Notorius” (1946) dove la spia Alicia trasforma la missione segreta in una missione sentimentale, a “Io ti salverò” (1945) che, a discapito della deontologia professionale, vede una psichiatra impegnata nel “guarire” un collega traumatizzato, e così via per tutta la sua opera.

Focalizzandoci sul cinema moderno non va meglio, se pensiamo che nei capolavori di Kubrick la donna spesso è relegata ad un apparire di contorno o comunque in ruoli minori, o è alla meglio una “Lolita” (1962). Dovremo aspettare l’ultimo, “Eyes wide shut” (1999) per trovare Nicole Kidman che, solo sognando uno sconosciuto, fa tremar le vene e i polsi del marito Tom Cruise.
E se passiamo dal cinema d’autore a quello di genere, in un lampo si ci accorge come il protagonismo maschile abbia colonizzato fino a fine secolo il comico e il western, i film di guerra e d’avventura, la fantascienza e il cappa e spada, il poliziesco e l’horror, isolando il protagonismo femminile nel musical, nel melodramma e nella commedia romantica.
Le registe
Spostandoci dietro alla macchina da presa la presenza di donne è sparuta benché talentuosa, ne sia un esempio su tutte Mira Nair (madre del nuovo, giovane e chiacchierato sindaco di New York, Zohran Mamdani), indiana di origine e americana d’adozione, vincitrice nel 2001 con “Monsoon wedding” del Leone d’oro alla Mostra del cinema Venezia, che poi aprì nel 2004 con “La fiera delle vanità”, due ritratti del mondo femminile tra ragione e sentimento.

Uno sguardo autenticamente cosmopolita, coerente, e raffinato, che la accomuna ad altre registe della sua generazione, come Jane Champion, la prima donna ad aver vinto la Palma d’oro a Cannes con “Lezioni di Piano” (1994), o Kathryn Bigelow, la prima donna ad aver ricevuto l’Oscar per la miglior regia nel 2010 con “The Hurt Locker”, emblema di una carriera che ha trasfigurato il film di guerra con un approccio asettico, per lasciare allo spettatore il giudizio e affrancare definitivamente il genere dalla funzione propagandistica.
Con loro spingono verso nuovi orizzonti di successo planetario anche Susanne Bier (“Un mondo migliore”, Oscar come miglior film nel 2007) e Sofia Coppola (“Somewhere”, Leone d’oro nel 2010), mentre l’Italia nella sua ristretta quota rosa trova la forza tematica e visionaria di Lina Wertmuller e Liliana Cavani, il cinema più introspettivo e familiare dei primi fortunati film di Cristina Comencini e Francesca Archibugi, fino alla promettente Alice Rohrwacher, che propone opere alternative, estremamente realistiche nella messa in scena e potentemente simboliche nella loro semantica.
L’anno delle donne
Gli argini si rompono definitivamente dal 2021 quando, proprio nel periodo più cupo del cinema, prostrato dalla pandemia, tre registe di nemmeno quarant’anni prendono i tre premi più importanti del mondo con tre storie di donne estremamente differenti ma comunemente dirompenti sul grande schermo.
Chloé Zhao vince (seconda dopo Bigelow) l’Oscar per la miglior regia di “Nomadland” (già Leone d’oro nel 2020), con una sempre straordinaria Frances McDormand, vittima della grande recessione americana, che la costringe al nomadismo non solo per necessità economiche ma anche per ritrovare in sé stessa il baricentro che ha perso con la morte del marito.

La Palma d’oro a Cannes è assegnata a “Titane” di Julia Ducournau, classificato come horror, su una giovane spietata che si fa ingravidare da un’automobile (sì avete capito bene): spiazzante, respingente, estremo, capace di mettere a dura prova la sostenibilità emotiva ma anche visiva dello spettatore.
Audrey Diwan ottiene infine il Leone d’oro per “La scelta di Anne”, tratto dal romanzo autobiografico di Annie Ernaux “L'evento”, che porta l’attenzione sulla disperata difficoltà di abortire per una ragazza degli anni Sessanta, quando la pratica era illegale. Tre film che scolpiscono donne estremamente sole, costrette a contare unicamente su stesse, ma che proprio per questo riescono a farcela.
In Italia e nel mondo
Il fenomeno che potremmo definire della “new women director age” in Italia è rappresentato da Paola Cortellesi, con l’exploit nel 2023 del suo esordio da regista “C’è ancora domani”, che la vede nei panni di Delia, madre, infermiera, e moglie vittima di violenza domestica.
Siamo a Roma nel 1946, agli albori del referendum tra Monarchia e Repubblica, passato alla storia come la prima votazione a cui partecipano le donne. L’affermazione istituzionale da elettrice coinciderà con la fine del suo percorso di autodeterminazione, raccontato da un’efficace compenetrarsi di commedia e tragedia, da un’estetica neorealista e da un apparato di tematiche proiettate nell’attualità, dalla denuncia della cultura patriarcale alla parità di genere. E’ stata l’opera prima con il maggior numero di candidature nella storia ai David di Donatello (19 di cui 6 vinti), e il titolo più visto in Italia nel 2023, superando anche “Barbie” di Greta Gerwig, che tuttavia a livello mondiale, è risultato il film diretto da una regista con il maggiore incasso di sempre (un miliardo e mezzo di dollari).

Il cinema delle donne domina al botteghino e nei festival più prestigiosi, convincendo non solo il pubblico e le giurie, ma anche i colleghi registi. Così, la sorellanza tra due amiche che si sostengono a vicenda nel momento in cui una di loro sceglie l’eutanasia, fa volare il Leone d’oro nel 2024 nelle mani di Pedro Almodovar per “La stanza accanto”, preceduto dalla vittoria di Yorgos Lanthimos nel 2023 con “Povere creature!” e la protagonista Bella Baxter, che nella sua evoluzione alla scoperta del mondo racchiude l’evoluzione che hanno avuto le donne nella storia del cinema.
Sguardi femminili a Nordest
Specchio della situazione italiana, il Nordest non brilla per quantità ma per qualità dell’apporto femminile nella settima arte, con figure che negli ultimi anni si sono imposte sul panorama nazionale e internazionale.
In primis una produttrice indipendente, Nadia Trevisan, che ha fondato a San Vito al Tagliamento nel 2013 con Alberto Fasulo la Nefertiti Film, mettendo la sua creatività a servizio della realizzazione di opere originali, firmate da giovani e promettenti autori del territorio. Ha prodotto “Brotherhood” del trevigiano Francesco Montagner, vincitore del Pardo d’Oro Cineasti del Presente al Locarno Film Festival nel 2021, ma soprattutto ha scoperto e lanciato Laura Samani, triestina, 36 anni, che con l’opera prima “Piccolo corpo” ha vinto il David di Donatello 2022 per il miglior esordio alla regia e ha presentato il suo film a 140 festival internazionali.

E’ reduce dal successo del suo secondo lungometraggio, sempre prodotto da Trevisan, “Un anno di scuola”, presentato alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, che ha fatto vincere il premio di miglior attore nella sezione Orizzonti al suo co-protagonista Giacomo Covi.
Da Udine arriva invece Demetra Bellina, attrice trentenne, nel cast di una decina di film, tra cui “Comedians” di Gabriele Salvatores (2020) e “Una terapia di gruppo” accanto a Claudio Bisio (2024), attualmente al cinema come protagonista di “Vas” sul fenomeno hikikomori, e già vista in molte serie di successo da “Tutta colpa di Freud” a “Vita da Carlo 3” con Carlo Verdone. Bellezza delicata, quasi eterea, la cifra di Bellina-attrice (è anche cantante e musicista) è l’intensità della misura, la potenza del non detto, la capacità di posizionare sullo schermo l’intimità dei personaggi attraverso espressioni del viso e del corpo.

Spostandoci in Veneto, dietro alla macchina da presa troviamo la talentuosa trentenne montebellunese Alessandra Gonnella, che ha vinto il Nastro d’Argento nel 2020 con il suo cortometraggio “A cup of coffee with Marylin”, da cui poi è stata tratta la serie di Rai1 andata in onda l’inverno scorso “Miss Fallaci”, sul primo periodo della carriera di Oriana Fallaci.

Recentemente Gonnella ha fondato a Londra la sua casa di produzione Nervosa Pictures, e nel 2026 girerà il suo primo lungometraggio tra l’Inghilterra e il Veneto, una commedia romantica interculturale.
Attrice e regista di chiara fama la trevigiana Michela Cescon, che ha mostrato la sua poliedricità in una trentina di film, diretta dai più grandi registi italiani, tra cui Paolo Sorrentino, Marco Bellocchio, Cristina Comenicini, Roberto Andò, Donato Carrisi e Ferzan Ozpetek.

Ha vinto nel 2004 il Golden Globe per “Primo amore” di Matteo Garrone e il David di Donatello nel 2012 per “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana, ha debuttato dietro alla macchina da presa con il thriller “Occhi blu” nel 2021, e sta girando il suo nuovo film “Desiderio”.
Federica Rosellini, nata a Treviso classe 1989, ha vinto il premio come attrice esordiente alla Mostra del cinema di Venezia nel 2017 per il film “Dove cadono le ombre”, più volte premio UBU a teatro, dove pratica l’attività di regia, è stata recentemente protagonista sul grande schermo in “Confidenza” di Daniele Lucchetti (2023) e “Campo di battaglia” di Gianni Amelio (2024), che ne hanno esaltato l’affascinante enigmaticità. Infine da segnalare il talento della padovana Sara Lazzaro, tra i volti più amati di seguitissime serie tivù, da “Doc: nelle tue mani” (Rai) a “Call my agent” (Sky), da “La legge di Lidia Poet” (Netflix) a “Io sono Lillo” (Amazon), per citarne solo alcune, con una quindicina di film in cui è stata diretta, tra gli altri, da Paolo Virzì e Andrea Segre.
I suoi personaggi sono sempre donne dal carattere sfaccettato, molto determinate, ma senza nascondere le proprie fragilità, emblemi di un panorama femminile in evoluzione, specchio della società contemporanea, con le sue contraddizioni e le sue spinte verso una sempre più urgente parità di genere, dentro e fuori dagli schermi.
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