Il Vanoi, dighe e discariche che minacciano il Veneto
Con lo scrittore Fulvio Ervas al confine fra Trentino e Veneto dove due progetti contestati possono trasformarsi in un pericolo per l’intera pianura: e non solo

Il Vanoi ci parla di noi. Del nostro rapporto con la natura, della crisi climatica.
Della differenza tra cerotti e soluzioni strutturali, di ciò che stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi.
Il fardello del Vajont grava, pesantissimo, sulle nostre spalle: evocarlo potrebbe sembrare fuori luogo, ma il doppio tema dei segnali inascoltati e dell’ingordigia resta lì, sospeso nell’aria.

«Il fiume è un grande organismo vivente, le modificazioni significative dei corsi d’acqua sono come amputazioni. Le modifiche artificiose a reti ed ecosistemi complessi poi non si riescono a governare, questo è il punto».
Fulvio Ervas, il papà dell’ispettore Stucky, tra i più noti scrittori veneti, pennella di ambiente quasi ogni suo libro.

Ogni opera, alla fine, guarda nel profondo della coscienza che abbiamo perso. Si fa tutto, per i schei. Salvo poi piangere lacrime di coccodrillo. Per questo, siamo saliti insieme quassù. Per avere uno sguardo ampio, più ampio della vallata che ci ha accolto.
Il Vanoi, dicevamo. Trentino orientale, da sempre cordone ombelicale con il Veneto.
Stesso nome, la vallata e il torrente. Nascosti ma svettanti si intravedono i monti Lagorai e le Pale di San Martino. Verso sud, oltre il Primiero, c’è il Feltrino con Lamon, Sovramonte, Fonzaso. Qualcuno, qui, aveva sognato la secessione: niente da fare.

Il Vanoi confluisce nel Cismon che a sua volta finisce nel Brenta che dovrebbe dissetare i campi del Vicentino e dal Padovano. Ma la crisi climatica incombe, la portata diminuisce, le colture soffrono, le risorgive scompaiono. E quindi?
Quindi il Consorzio di Bonifica Brenta vuole erigere una diga sul Vanoi: chiede e ottiene dal ministero dell’Agricoltura un milione e mezzo di euro per il progetto di massima, anche se tutti sanno che il rischio idrogeologico è alto, qui. Ma come è possibile?
«Quel progetto è impossibile da realizzare, lo confermano innumerevoli studi sul quel territorio evidenziato come area ad alto rischio», taglia corto Flavio Taufer del combattivo Comitato difesa torrente Vanoi, che ci “scorta” per la vallata.
Ci sono frane attive, enormi depositi morenici lungo i versanti coinvolti dalla progettazione.

Per non dire che il substrato su cui si poserebbe la diga presenta una complessa stratigrafia che include un profondo paleoalveo. Il progetto potrebbe fare da detonatore a processi ben noti. Il concetto sarebbe abbastanza semplice: non svegliare il can che dorme.
«È chiaro che non ci sono Vajont ovunque – chiosa Ervas – ma il tema della prevedibilità del rischio è rimasto attuale, purtroppo. Quell’idea di portare l’elettricità, diciamo pure il progresso, era legata non solo al profitto, ma al concetto che bisognava andare avanti comunque, a tutti i costi. Ecco, è quell’idea di fondo che va radicalmente cambiata».
Che poi, davvero le dighe sono l’unica soluzione? Taufer scuote la testa: «Le alternative ci sarebbero, senza fare danni o rischiare seriamente di farne. Le aree d’infiltrazione, ad esempio: sono state sperimentate dallo stesso Consorzio Brenta. E poi sarebbe tempo di provvedere allo sghiaiamento dei bacini esistenti, che stanno rapidamente esaurendo la loro portata per il perenne deflusso di materiali».

È una storia strana, questa. Ma paradigmatica. Né la Provincia di Trento né quella di Belluno vogliono la diga, chi per sfruttamenti pregressi, chi rivendicando le competenze in materia rispetto al centralismo romano, sia pure di stesso segno politico.
Il Veneto si accoda anche se passa la palla ai tecnici, i comitati danno battaglia. Tutti contro il Consorzio, che ha fame d’acqua? Domenica si vota la nuova governance, vedremo chi vincerà.
In ballo, c’è anche il progetto della diga. In valle pensano che solo un pazzo insisterebbe a volerla erigere lì, proprio lì. Ma certezze non ce ne sono.
Anzi, una c’è, ed è che adesso l’attenzione si è spostata più in là, a due passi dal paese di Canal San Bovo e a monte dell’ipotizzata diga: basta dirigersi verso il ponte di Ronco e guardare a lato del torrente. Decine di camion fanno la spola, su e giù tutto il giorno.
Non dal paese vicino ma da Trento: giù a valle stanno costruendo la Tav sui terreni dell’ex scalo Filzi, vicino a zone dichiarate Sic. Ci sono centinaia di migliaia di metri cubi di inerti da far sparire, e indovinate un po’?
Esatto, li stanno portando tutti qui. Sono inquinati «ma non troppo», dice Appa Trento. Quanto alla Provincia autonoma di Trento, spiega che la cosa è provvisoria, l’obiettivo è chiudere tutte le discariche e fare un inceneritore, uno solo, per tutto il Trentino.
Se lo giocano Trento e Rovereto, in attesa di sapere chi resterà col cerino in mano, il Primiero «cuore verde del Trentino» sopporta senza alcuna riparazione.
«Qui siamo in un posto spettacolare – dice Ervas - l’ingegno umano è un ponte, ma poco sotto ce n’è un altro, di ingegno: costruire una discarica vicino a un fiume, mi pare una cosa da tossicodipendenti. Il concetto di fondo è sempre il solito: uso un territorio, consento alle aziende di ridurre i costi di produzione per smaltire, garantendo così alti profitti; mentre i costi sull’ambiente sono scaricati su tutti.
L’impresa dura qualche decennio, il fiume molto di più ma dopo di noi, chi se ne frega.
Per fortuna, i cittadini reagiscono, costretti però a combattere per una cosa che dovrebbe essere ovvia: lasciare l’ambiente come l’abbiamo trovato. Questo criterio dovrebbe essere fisiologico, e invece si lotta per l’ovvio. Il bene comune è uno slogan».
Più d’uno, qui, teme le esondazioni. Ci vuole niente, a vedere la discarica scivolare giù – se non franare – lungo il letto del torrente. Taufer ricorda che la “filiera fluviale” scende giù sino a Venezia, per questo le comunità a valle si stanno preoccupando. Comprese, forse, quelle stesse che hanno fame d’acqua, ma che forse vedono la diga come una scorciatoia.
Perché è chiaro che dovremmo trovare soluzioni efficaci, e durature, per contrastare la crisi climatica: «La quantità d’acqua che consumiamo per quel maledetto mais è enorme», dice Ervas, che ha studiato agronomia, «considerando anche che la maggior parte delle nostre reti idriche sono a scorrimento superficiale, non sotterraneo.
Con perdite ancora consistenti. Non stiamo pensando a nuove forme di distribuzione, né a nuove varietà. E allora l’unica soluzione è usare la natura all’infinito, ‘che tanto non vota. L’idea di poter attingere alle risorse infinite del pianeta è stupida, semplicemente».
Noi e loro. Le generazioni che hanno creduto nello sfruttamento eterno delle risorse, e poi loro, i giovani di oggi, quelli dei Fridays for Future.
«Crescono con uno sfondo culturale diverso, molto diverso», la chiude Ervas.
Le cinque cose da sapere

1. Il rischio idrogeologico è la possibilità di instabilità del territorio (frane, smottamenti, colate di fango) e di allagamenti causati da forti piogge, che superano la capacità di assorbimento del suolo e dei corsi d'acqua minori, mettendo a rischio abitazioni, infrastrutture e persone. L’Italia ha una geologia fragile.
2. Le dighe servono principalmente per creare bacini artificiali e controllare il flusso dei fiumi, con molteplici scopi: produzione di energia idroelettrica, irrigazione agricola, riserva d’acqua potabile, controllo delle piene (protezione da inondazioni). Creando un lago a monte, regolano il deflusso dell'acqua, immagazzinandola.
3. Secondo la FAO, organizzazione delle Nazioni Unite, i danni causati dalla perdita della produzione agricola per eventi climatici estremi hanno un ingente valore economico, soprattutto nelle parti del mondo caratterizzate da una forte incidenza del settore agricolo all’interno del tessuto produttivo.
4. La coltivazione del mais, praticata diffusamente anche nelle vallate del Brenta, richiede molta acqua, con fabbisogni che variano da 350 a 800 mm stagionali, soprattutto in Italia nella Pianura Padana, dove l'irrigazione è spesso necessaria per ottenere rese elevate. Le tecniche più efficienti includono l'irrigazione a goccia.
5. Il disastro del Vajont si verificò la sera del 9 ottobre 1963, quando una frana precipitò dal pendio del Monte Toc nelle acque del bacino alpino realizzato con la diga. La tracimazione dell'acqua contenuta nell'invaso provocò l'inondazione e la distruzione del fondovalle, tra cui Longarone, e la morte di 1917 persone.
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