Trent’anni fa il massacro di Srebrenica, dove l’Europa ha perso la dignità
Rinunciando a proteggere le migliaia di bosgnacchi che si erano affidati alla protezione dei soldati dell’Onu l’Europa ha perso credibilità, anima e onore: da lì il virus della separazione etnica ha iniziato a diffondersi con il consenso dell’Occidente

Srebrenica, cittadina ubicata nella Bosnia orientale, durante la guerra del 1992-95 (che vide anche l’assedio di Sarajevo) era un’enclave sotto il controllo dell’esercito bosniaco che ospitava migliaia di musulmani bosniaci. Nel 1993 passò sotto la protezione ufficiale dei caschi blu.
Nell'estate 1995 Srebrenica cadde nelle mani delle truppe del generale Ratko Mladić, allora a capo dell’esercito serbo-bosniaco. Senza incontrare la resistenza Onu, gli uomini di Mladić presero il controllo dell'area l'11 luglio 1995, separando donne e bambini dagli uomini tra i 14 e i 60 anni. Il primo gruppo fu espulso verso Tuzla; il secondo massacrato. Da lì una serie di uccisioni: alla fine sono state oltre ottomila le vittime identificate nel corso degli anni.
Dal 2004 la Corte internazionale di giustizia per l'ex Jugoslavia ha riconosciuto il carattere di genocidio per il massacro. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha incriminato decine di persone per Srebenica. Mladić, arrestato nel 2011, sta scontando l’ergastolo per crimini di guerra e contro l'umanità: i suoi legali hanno chiesto possa essere curato in Serbia visto lo stato di salute. Da molti anni l’associazione delle Madri di Srebrenica si batte per avere giustizia e ricordare l’accaduto.
Diciamolo chiaro. La comunità internazionale, oltre che condannare Ratko Mladić, il boia di Srebrenica, avrebbe dovuto processare se stessa. È lì, molto prima che a Gaza, che l’Europa ha perso la credibilità, l’anima e l’onore, rinunciando a proteggere le migliaia di bosgnacchi che si erano affidati alla protezione dei soldati dell’Onu e consentendo il loro sterminio.
È a Srebrenica che i musulmani iniziano a essere considerati morti di serie B ed è lì che il virus della separazione etnica comincia a diffondersi con il consenso dell’Occidente, generando massacri dal Kosovo all’Ucraina e al Medio Oriente. Divisi è meglio, ecco la formula “geniale” che sta balcanizzando la stessa Unione europea, ridottasi a deportare i poveri che bussano alla sua porta e a militarizzare i confini anche tra i Paesi fratelli.
La Bosnia non è affatto l’ultima guerra di un arcaico mondo tribale, ma la prima guerra di un mondo nuovo scientificamente bombardato di disinformazione e rancore, zizzania sparsa ad arte con mezzi potentissimi per spingere i popoli gli uni contro gli altri anziché aiutarli a risolvere insieme le emergenze globali.
Oggi si alzano muri e si abbattono i ponti, e i costruttori di ponti - come Alex Langer, suicidatosi alla vigilia di Srebrenica - muoiono schiacciati dal peso immane della loro stessa sfida. Il ponte di Mostar fu abbattuto dai Croati non in quanto manufatto ma in quanto simbolo di convivenza.
In quel mondo infatti esistono due modi di dire ponte: “Most” è il ponte fisico, mentre “Čuprija” è l’anima del ponte, il filo invisibile fra le sponde, metafora dell’incontro fra diversi ma anche sensore dell’incrinarsi della concordia. Fu sul ponte di Mostar che nel 1991 un vecchio mi avvertì della tragedia imminente dicendo: «Questa è la nostra ultima estate di pace».
Senza ponti, anche i fiumi dividono, e dai giorni della guerra balcanica il fiume Drina – cui il Nobel Ivo Andrić ha dedicato un’epopea letteraria – è ridiventato una funerea linea di faglia, con i cadaveri dei migranti afghani o siriani travolti dalle acque che oggi scendono nella corrente come quelli dei bosniaci uccisi di trent’anni fa.
A questi poveri morti c’è chi cerca di dare sepoltura onorata. Uomini e donne dell’una o dell’altra riva che hanno provato la guerra e sanno «cosa significa ignorare dove sono i corpi dei propri cari». Questo mentre l’Europa ipocrita esternalizza il respingimento dei profughi alle milizie spietate e alle mafie di Paesi torturatori di innocenti a scopo di lucro.
A Srebrenica, per dieci-quindici anni dopo la strage, sono rimaste poche vedove o madri in lutto. Erano l’unica speranza di rinascita di quel luogo di morte. Vecchie e giovani, avevano provato a ricominciare, come se gli assassini dei loro figli non fossero più in circolazione, come se i bambini rimasti non dovessero giocare in scuole sporche di sangue, su erba che puzza di morte. Come se il mondo non le avesse tradite e l’Europa avesse una dignità.
Ma era impossibile. Ricominciare in quelle condizioni, era una fatica immane. Non poteva esserci rinascita senza giustizia e per la Bosnia non aveva pagato nessuno, tranne simbolici capri espiatori. E quando alla fine i Balcani non sono stati più di moda, quando sui giornali la Siria e l’Afghanistan hanno sostituito la Bosnia e gli aiuti umanitari hanno cominciato a scarseggiare fino a esaurirsi, se ne sono andate definitivamente.
Le baracche provvisorie che le avevano ospitate a Tuzla o Gračanica, in spazi più ospitali, sono diventate definitive e così Srebrenica è diventata una città spettrale, che si riempie solo per le celebrazioni dell’11 luglio, e che poi, quando tutti se ne vanno - sopravvissuti, espatriati, giornalisti e autorità – ritorna alla sua natura di tetro catino minerario.
È allora che il passato ritorna, annusi lo stesso odore, la stessa miseria, lo stesso imbroglio di allora. Stesse foreste, stesse notti di stelle, stesso odore di carbone povero che sale dai comignoli con nebbia d’inverno, stessa ferita nei monti che intrappola i tuoni e le cannonate. È in quei monti che la valle, fino al memoriale di Potočari e alla confluenza con la Drina, ritorna ai suoi morti. —
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